





|
|||
Traversate e altri viaggi (4)di Pasquale Scarpati
con dedica a Isidoro Scotti, dirigente medico c/o ASL di Latina. Traversata pericolosa Quello che stava affacciato al muro del Corso con le braccia poggiate sul basolato cresposo, guardando lontano, pensava che tutte queste soste servissero per rinsaldare o quanto meno tenere vivo il legame tra “ascendenti e discendenti”. Invece quello che stava seduto al bar di Lucietta (Tricoli) o al Rifugio dei Naviganti o al Welcome’s, sicuramente preso da improvviso raptus per aver troppo bevuto, asseriva che tutte queste soste servivano alla SPAN per risparmiare una “corsa di nave” tra Ischia, Procida e Napoli a discapito, quindi, della rapidità dei collegamenti con le isole pontine. Fatto sta che a me di siffatte “disquisizioni” non importava nulla; volevo solo e soltanto salire in nave e allontanarmi quanto prima possibile dalla terraferma per le ragioni anzidette. Mamma era un po’ riluttante ma io ero capa tosta. Partimmo, puntuali, alle 10 del mattino. Era piacevole, quel tremolio, perché voleva dire che quella massa di legno e ferro, che a me sembrava enorme e statica, avesse anche la possibilità di muoversi. Da statica, viva; da lenta, veloce, per cui con la mente la sospingevo sempre più avanti e volevo quasi che volasse. Ripensando: era come un librarsi nell’aria o, per meglio dire, mi dava la sensazione del distacco da un qualcosa di tangibile per inoltrarmi verso un etereo ignoto. O forse, più semplicemente, pregustavo già la terra natia con i suoi odori, sapori, e soprattutto gli affetti. Ancora oggi, nonostante l’età, percepisco, quelle poche volte che posso toccare il suolo natìo, la medesima, intensa sensazione. Potetti dare solo un fugace sguardo alla città che si allontanava con i suoi palazzi, la sua villa ed il vecchio maniero perché fui costretto da mia madre, che non mi aveva lasciato neppure un istante, a scendere immediatamente nella parte sottostante della nave, sia perché aveva avuto la certezza delle cattive condizioni meteo-marine, sia per la paura della verifica del biglietto da parte dei marinai. Prendemmo posto dal lato occidentale, quello di sottovento, su quelle panchine di legno che stavano al di fuori della sala motori tra i vari “odori” che, come già detto, si intrecciavano per l’aria. Ciò che mi attendeva lo posso paragonare alla tempesta che Poseidone, vendicativo, scatenò contro Odisseo che, a bordo della sua zattera, veleggiava, lieto, nonostante avesse abbandonato gli abbracci e le lusinghe della ninfa Calipso, dall’isola di Ogigia verso la cara Penelope e Itaca lontana. Miniello, infatti, aveva ragione: non appena usciti fuori dal porto, il “Ponza” cominciò a saltare sul mare come le stenelle che, per dimostrare la loro forza, si spingono fuori dall’acqua con salti prodigiosi. Il rombo dei motori si faceva sentire nel mio povero stomaco. Uomini con le mani piene di grasso si aggiravano in sala macchina sopra ponti di ferro sospesi, girando e rigirando manopole rotonde! Mamma mi fece distendere sulla panca perché – diceva – era meglio che prendessi aria piuttosto che scendere giù dove c’erano quelli che avevano il biglietto di terza classe (quelli che avevano il titolo di viaggio della classe “prima”, invece, avevano a disposizione poltroncine vellutate in una saletta separata da due porte a vetro). Così avemmo tutta la panchina a disposizione. Io, però, tendevo continuamente ad alzarmi perché volevo godere lo splendido ed affascinante spettacolo delle onde, a volte spumose, a volte no, che si avventavano, in modo robusto, sul “fuscello” quasi a volerlo stritolare. L’aria era scura e le nuvole, nere, facevano a gara tra loro, rincorrendosi, accavallandosi, mescolandosi, in una sorta di zuffa aerea quasi contraltare di quello che accade, (pur)troppo spesso, sulla Terra; a causa del rullio della nave, a volte sembravano più vicine a volte più lontane. L’onda, orribile, correva di fianco, spezzandosi sotto l’urto della nave. Una spuma bianca, alta, si staccava dalla nave, e, correndo quasi a sua difesa, si avventava contro i flutti. La titanica lotta si affievolì soltanto quando riuscimmo a guadagnare il porto di Procida. Una breve sosta e poi di nuovo tra i marosi a menare la solita danza. Ischia Porto ci accolse con mare tranquillo ma con molto vento, tanto che la nave ebbe qualche difficoltà ad attraccare. Qualcuno disse che avremmo eluso i porti di Casamicciola e Forio poiché sarebbe stato impossibile anche mettersi in rada. Pertanto il viaggio sarebbe proseguito direttamente, nel vasto gorgo, in direzione di Santo Stefano prima e Ventotene poi. Usciti dal porto, le onde divennero sempre più alte e minacciose; ad un tratto si sentì urlare che la cabina della mensa ufficiali si era allagata, vuoi perché avevano lasciato l’oblò aperto, vuoi perché era stato aperto dalla forza del mare. Dappertutto c’era vomito ed acqua perché anche i “rintanati” furono costretti ad uscire fuori dalle salette. Mentre mia madre mi teneva la fronte sentii dire che il comandante, vista l’impossibilità di raggiungere o per meglio dire di attraccare a Ventotene, aveva deciso di tornare indietro. Pertanto aveva effettuato la manovra della virata che si dice sia quella più pericolosa con il mare in tempesta. Come Dio volle, raggiungemmo di nuovo il porto di Ischia dove trascorremmo parte della notte in alberghi o ricoveri di fortuna. Il giorno dopo, alle 4 del mattino, di nuovo in nave perché, essendo di mercoledì, essa non solo doveva terminare il viaggio ma sarebbe dovuta anche partire immediatamente per Formia: il cosiddetto “arriva e parte”. Non ricordo con esattezza a che ora toccai il suolo natio, fatto sta che ero contento lo stesso: avevo guadagnato una giornata in più in terra ponzese. . [ Traversate e altri viaggi (4) – continua ] Devi essere collegato per poter inserire un commento. |
|||
Ponza Racconta © 2021 - Tutti i diritti riservati - Realizzato da Antonio Capone |
Commenti recenti