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Traversate e altri viaggi (2)

di Pasquale Scarpati

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Con dedica a Isidoro Scotti, dirigente medico c/o ASL di Latina

per la prima parte, leggi qui [2]

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Molti si recavano nei pressi della scaletta per accogliere parenti o amici, altri per pura curiosità.
Dopo i baci e gli abbracci, la prima domanda d’obbligo era comm’è ghiut’u viagge?.
Questa rituale domanda si poneva anche se il mare era calmo, piatto e liscio come l’olio e pertanto si presupponeva che fosse stata una traversata senza alcun fastidio.
Questo, sicuramente, era un retaggio antico, di quando i viaggi per mare potevano celare, comunque, molte insidie. Era piacevole, però, sentirselo dire in qualunque occasione ma in special modo quando l’onda si arrampicava sulla Ravia e levava ampi spruzzi dietro la scogliera che chiudeva la Caletta quasi a proteggerla e a confortarla. Era un benvenuto o, per meglio dire, un bentornato a casa.

La stretta scaletta ondeggiante, delimitata da corde sottili, poneva fine al travaglio. Sembrava una passerella: una ragazza con i tacchi a spillo, ondeggiando, si muoveva come in una sfilata di moda, mentre alle sue spalle una persona sollevava una guantiera di pasticcini come un trofeo, una donna più anziana c’u maccature ’ncape scendeva rapidamente guardandosi intorno, probabilmente in cerca di qualcuno; un altro tenev’aizzat’a valigge ’ncopp’ i spalle, mentre un’altra persona preferiva portarla sospesa davanti alle gambe quasi barcollando a causa dell’angusto passaggio. Ovviamente non la si poteva trainare poiché prive di ruote (il trolley sarebbe stato inventato anni più tardi!) …Visi stravolti ma sorridenti.

A casa ci attendeva una pastina leggera insieme al suo tepore. La partenza, invece, a causa anche dell’ora crudele anzi truce (4 e mezzo del mattino, quindi sveglia almeno un’ora prima e per coloro che abitavano ai Conti o alle Forna era come la “notte di Natale”) era dura e fastidiosa sia quando la nave, d’estate, si allontanava nel sole nascente (non esisteva l’ora legale) sia soprattutto, d’inverno, quando il buio pesto non consentiva all’occhio di scrutare l’onda marina ma si affidava all’orecchio l’ingrato compito, e soprattutto la responsabilità, di intuire, da casa mia, l’umore del mare ’ncoppa ‘u summarielle.
Qualcuno avvertiva i crampi già prima di partire! Specialmente se il vento era costante e teso ed il conseguente sciabordare continuo dell’onda non facevano presagire nulla di buono.
O forse, più semplicemente, era una questione psicologica per il fatto che già si avvertiva il distacco dagli affetti.
Alla medesima persona, infatti, ciò non accadeva nel momento del ritorno. Forse che l’ora della partenza per il ritorno, non troppo peregrina, rendeva più avvezzo il suo stomaco? Non saprei… (lo decida il vago lettore).

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Stomaco vuoto o stomaco pieno? Questo era il dilemma. Alcuni, forti della loro esperienza, asserivano che era meglio affrontare il buio e l’incognita marina con lo stomaco vuoto; altri, al contrario, dicevano che era meglio avere lo stomaco pieno perché, mentre nel primo caso, si avevano fin da subito i crampi e soltanto conati di vomito molto dolorosi, nel secondo caso, invece, si aveva qualcosa da dare ai pesci prima che lo stomaco si svuotasse.
Altri salomonicamente mediavano tra le due parti. Dicevano, infatti, che bisognava mangiare ma soltanto roba secca come ad esempio le freselle (non ingerire quindi né liquidi né mangiare dolci) ed eventualmente anche… alici salate!
Fatto sta che per me nessuno di questi rimedi risultava efficace. Il fumo che si sprigionava delle caldaie prima e la puzza di nafta poi insieme al rullìo della nave (più che il beccheggio) ed al rombo dei motori, provocava in men che non si dica la “rivolta” dello stomaco.
Non c’era riposo: né stando seduti né sdraiati sulle panchine di legno, né sotto coperta, in terza classe, né “all’aria” appestata com’era da ”effluvi” provenienti dai motori, dal bagno, dalla piccola cucina (se la navigazione era “da crociera” cioè lunga, quasi sempre, ad una certa ora, di là si spandeva, nell’aria, acre odore di aglio o cipolle “ben soffritte”: per questo, credo, i marinai soffrissero per la maggior parte di ulcera peptica) e da qualche sigaretta o peggio ancora da sigaro o da pipa caricata con il famigerato “trinciato forte” che i lupi di mare non disdegnavano fumare pur in quelle condizioni meteo-marine.
Per loro, infatti, era solo un “passatempo” tra una chiacchiera ed un’altra, tra una maniglia o un tresette. Non barcollavano nemmeno: si reggevano a gambe divaricate appoggiati a qualche spuntone di ferro, come avessero le molle nelle gambe.
Io, invece, avevo le gambe… molli per cui per spostarmi per andare a fare il servizio dovevo aggrapparmi dappertutto come colui che brancola nel buio, rischiando anche di trovarmi disteso o di battere la testa. In tolda non si poteva andare sia perché era consentito solo a chi possedeva il biglietto di prima classe sia perché si rischiava di prendere un altro accidenti  a causa del vento freddo del mattino pur senza aver risolto il tragico “problema”.

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Lo scafo bianco, la prora diritta, come soldato che marcia impettito, la poppa curva, la ciminiera lunga e colorata in sommità, spinte dal vapore generato dal nero carbone, silenziose scivolavano sul mare in cui guizzavano ancora pesci volanti che planavano con breve volo e delfini lucenti che, scherzosi, gareggiavano con esse.
Esso si apriva, sussurrando, lasciandole passare volentieri perché il lieve fruscio non impediva di sentire la sua onda spumosa e bianca che si formava e dopo un po’ si perdeva sulla poppa.
Il mare si sentiva signore e dominatore. Non squassato da rumorosi motori né inquinato da chiazze oleose o buste di plastica galleggianti, con la sua onda, a volte più spumosa a volte meno, faceva vibrare il battello come la pelle di amante impetuoso e passionale.

Poi giunsero navi più belle ed “eleganti” ma rumorose perché avevano i motori a combustione interna o per meglio dire a nafta. Valvole che salivano e scendevano incessantemente, fragori cadenzati inframmezzati da sbuffi d’aria. Sulla plancia comandi molti semplici: un grande timone, una bussola e, al di fuori della cabina di comando, le leve per dare gli ordini alla sala macchine che emettevano un drin drin ogniqualvolta il comandante le muoveva.
Erano due: una per il motore di destra ed uno di sinistra. Sul cilindro c’era scritto: avanti, piano, medio, tutta e dall’altro verso gli stessi comandi per andare indietro.
Il comandante, dopo aver sentito il fischio del secondo, le afferrava saldamente e le muoveva due volte prima di fermarle sulla velocità voluta. A prua, intanto, un verricello elettrico aveva assolto al proprio compito issando a bordo, lentamente, la rumorosa e pesante catena di ferro; ma ancora più lenta era la risalita della catena sul bastimento i Sigarette perché il verricello era azionato da due leve (una a destra ed una a sinistra) su cui si appoggiavano alternativamente e pesantemente uomini da una parte e dall’altra. Così la catena emetteva un breve suono metallico ogniqualvolta un anello passava attraverso gli ingranaggi, suono che si spandeva per tutta la baia silente, fino a che la mastodontica ancora ricurva non saliva sul fianco.
Essa aveva una forma diversa da quella della nave; quest’ultima mi sembrava più piccola perché si andava ad incastrare nelle fessure di prua che, prive dell’ancora, a me sembravano occhi malinconici da cui sgorgava una lacrima perenne.
Ma se l’ancora, sul fondo, andava ad incagliarsi da qualche parte o in un’altra ancora (ciò avveniva quando cominciavano ad ormeggiarsi più navi), bisognava attendere con ulteriore pazienza prima che la nave finalmente drizzasse la prua verso il largo.
Si vedeva allora qualche barca che armeggiava sotto la prua della nave anche in condizioni non proprio ottimali. Un mondo paziente (in tutte le sue accezioni): non logorato o per meglio dire non angosciato da ritmi violenti e massacranti come ben si nota durante la stagione che si suol definire “bella”.

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Gli antichi ritmi dell’Isola, da me vissuti purtroppo brevissimamente, alla fine dell’intesa stagione appena trascorsa, mi hanno lenito, placato e sedato il male congenito. La mente e l’occhio, liberi da frenetiche e spasmodiche intrusioni, hanno spaziato dappertutto mentre l’aria tersa e resa ancor più limpida da un levante fresco che accarezzava leggermente la Ravia e faceva toccare con mano Zannone e i monti Aurunci, hanno riempito pienamente i polmoni. Vento sulla punta di Calacaparra; calma piatta, invece, a Cala Feola.
L’Isola ama e fa amare queste “contraddizioni”! Disponibilità al dialogo e al racconto da parte di coloro che insistono sull’Isola. Ho riposto nel cassetto gli intrugli e le pillole: esse sono svanite come nuvole nel cielo, portate via dai sapori, dai ritmi e soprattutto dagli approcci! Piacevolissimo soffermarsi e ricordare, ascoltare… e, soprattutto, avvertire l’antica disponibilità al dialogo e all’accoglienza. Pendevo dalle labbra degli interlocutori, ai quali, come bimbo curioso, mi piaceva porre qualche quesito. Ne seguiva una risposta lunga ed articolata. Forse anche per loro era un liberarsi dalle onerose fatiche della stagione: librarsi sull’onda dei ricordi e delle persone. Chissà!

[ Traversate e altri viaggi (2) – Continua]