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Traversate e altri viaggi. (1)

di Pasquale Scarpati

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Con dedica a Isidoro Scotti, dirigente medico c/o ASL di Latina

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Viaggi perigliosi e disagevoli ovvero il disagio nei collegamenti
Vi fu un tempo in cui, allungando l’occhio, come prua di natante veloce che sobbalza sulle piccole onde, era possibile scorgere all’orizzonte – là, verso Zannone scuro e folto che si specchia quasi antitesi al celeste marino – vele bianche o grigie o “Sigarètt’” che, calmo e placido oppure sobbalzando, guadagnava l’onda.
A volte, di notte, la nuda oscurità del liquido veniva interrotta da occhi luminosi (‘i llampàre) che, come cornice, sostavano laggiù sull’orizzonte misterioso.
Ma nulla era più emozionante dell’apparizione di un pennacchio scuro, ancor prima di un puntino bianco: il Gennargentu o l’Equa (già Regina Elena) avanzavano verso la meta.

Si avvertiva, per le stradine tortuose, una certa agitazione che sospendeva momentaneamente la calma sonnacchiosa.
Arriv’  ‘u vapore!” si sentiva dire. Molti si avviavano frettolosamente a pont’ u muole, quasi ad abbracciare quella massa di ferro che giungeva a far visita alla baia deserta; non tutti i giorni, però, né a tutte le ore.
Eppure quello era il tempo in cui, a causa dell’elevato numero dei residenti (tutti, peraltro, veri e soprattutto effettivi), i collegamenti sarebbero dovuti essere non dico più celeri ma almeno più assidui. Ed invece si limitavano ad alcuni giorni della settimana.
La domenica, infatti, la nave staccava gli ormeggi alle 7 del mattino per dirigersi verso Napoli dove giungeva alle ore 14 (di questo dirò in seguito).
Il lunedì il porto rimaneva sgombro da ogni ferraglia. A detta di alcuni, ciò era voluto affinché gli abitanti potessero ammirare e gustare il porto nella sua interezza senza alcun elemento furastiere, tuffando, eventualmente, la mente nel passato (sic!).

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Il martedì alle ore 17 eccola di nuovo spuntare da dietro i faraglioni della Madonna proveniente da Napoli. Attraccata, sollevava dalla stiva numerosa merce che il bravo e paziente Muscardino caricava sui barconi facendo la spola con la banchina (a volte finiva il suo lavoro a tarda ora).
Ripartiva il mercoledì mattina alle 4 e mezzo per Formia dove giungeva verso le 8. Ritornava la sera stessa.
Il giovedì, invece, alle 5 del mattino drizzava la prua verso la sorella più piccola e verso lo Scoglio dove molti pagavano il fio dei loro errori. Di là si dirigeva verso Formia impiegando complessivamente appena 5 ore di viaggio! Stanca ed affaticata (sic!), si fermava in quel porto per tutta la notte. A noi, pertanto e ancora una volta, era concesso, per altrui bontà, nel giorno infrasettimanale, di poter ammirare, quasi insaziabili, interamente la bellezza borbonica.
Eccola il venerdì nel tardo pomeriggio provenire da Formia, ripetendo, questa volta al contrario, la rotta del giovedì (per questo l’anno scorso, per caso percorrendola, l’ho definita “l’antica tratta”).
Infine il sabato, di nuovo e alla stessa ora, per Formia come il mercoledì.

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Questi erano i collegamenti detti commerciali.
Alcuni – i romantici – sostengono che ciò era un fatto voluto affinché gli abitanti, impossibilitati ad uscire continuamente e celermente, rafforzassero sempre più saldamente le radici portando così, ovunque andassero, i sapori e le tradizioni locali.
Altri, oserei dire più “rozzi” e “terra terra” che non vedevano o non vedono oltre il proprio interesse o per meglio dire le proprie tasche, asseriscono che ciò era questione di denaro.
Sta di fatto che la penuria di collegamenti, in tutte le sue forme, rendeva il mare una sorta di cinta muraria. Al suo interno si creava una certa unità, solidarietà accompagnate da proprie peculiarità.
Se da una parte, infatti, ci si sentiva lontani e per un certo verso estranei al mondo circostante (niente TV; qualche radio, dove e quando era erogata l’energia elettrica; giornali che, a causa dei collegamenti sunnominati, giungevano a singhiozzo e che pochi leggevano per mancanza di tempo o perché analfabeti o quasi; le notizie erano, oltretutto, “stagionate” come il prosciutto crudo che stava lì in bella mostra ma che nessuno comprava), dall’altra il Ponzese come tutti quelli che vivevano la medesima vita, non solo utilizzavano ma, dico, erano costretti ad addomesticare ai propri bisogni (anche ingegnosamente) qualsiasi elemento naturale e non. Oppure, meglio ancora, come si dice da qualche parte, erano costretti ad  “arrangiarsi” (si raddrizzava, tra l’altro, a suon di martellate, persino il chiodo struzzellate, divelto con un tenaglione da qualche cascetta da riutilizzare), secondo un atavico costume dovuto a fattori storici e non.

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L’estrema vicinanza di elementi diversi tra loro non solo rendeva variegata la loro esperienza e, di conseguenza, il pensiero ma gli stessi interagivano tra loro, contribuendo a creare una cultura, oserei dire, quasi autoctona. Di converso: come i capponi di Renzo che, portati l’uno vicino all’altro all’estremo sacrifico, si beccavano tra loro, così, forse a causa dei luoghi angusti o forse perché costretti, dico costretti, a vivere “gomito a gomito”, gli stessi abitanti non disdegnavano litigare anche per quella che potrebbe essere considerata un’inezia ma che ai loro occhi risultava un’enormità la quale, a loro parere, non poteva non essere composta se non attraverso gli occhi e la voce dei tribunali.
Così si litigava per una pietra di una parracina spostata forse con astuzia o divelta per eventi atmosferici, o addirittura per un chiodo, affisso in un muro da un vicino di casa malevolo o dispettoso, che impediva a chi abitava a fianco di tenere totalmente aperto il battente del portone di casa o del negozio. Insomma se da una parte ci si adattava ad ogni situazione contingente cercando in vario modo di dare una soluzione ad un problema personale (usando, il più delle volte, anche tecniche non proprio ortodosse anzi piuttosto rudimentali); dall’altra, stranamente, non sapevano o forse non volevano risolvere un problema sia pur piccolo con il vicino di casa o di terreno, affidando ad altri (per lo più estranei) la soluzione; rimettendosi, quindi, al loro giudizio. Salvo, poi, rimanere delusi dalla sua conclusione e quindi ricominciare daccapo.
Pensavano, forse ingenuamente, che altri potessero risolvere i loro problemi.

Ma, come quello che mangiava i lupini come pane e si lamentava del suo stato fino a che, voltandosi, vide un altro che, ancora più indigente, raccoglieva le bucce che lui buttava a terra e le ingoiava avidamente (ma non so se si lamentasse del suo stato), così, se noi eravamo disagiati, che dire della “sorella minore”?
Quella, infatti, fruiva di appena quattro collegamenti settimanali (due di andata e due di ritorno) per un totale di 16 giorni al mese. D’altronde, secondo alcuni – i soliti arguti che hanno sempre qualche idea “strana” per la mente – non poteva non essere altrimenti: porta, infatti, il nome di… Ventotene: pericolosa quindi per ogni attracco!
Qualcuno, forse buontempone o superficiale oppure puerile – lo decida il lettore – afferma, senza ombra di dubbio, che questo, invece, può succedere: il nome e, tra gli uomini, anche il cognome, può influire e/o condizionare..!
Un altro saggiamente: “Tralascia – dice – queste idee stravaganti e peregrine; prosegui nel tuo… viaggio!”

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[Traversate e altri viaggi. (1) – Continua]