Si alimenta col vento la ginestra pontiana (’u ’uastaccetto). Sui picchi, sui dirupi, sulle scarpate si leva striminzita e precaria. Contorta, ispida, scabra.
Dal vento trae la sua spavalderia perché alle folate si oppone. Resiste nonostante le ruvide bordate. Si contorce, getta via dalla chioma il superfluo e si stringe nei rami. Duri e squamosi quasi fossero spine per lacerare il vento, per piegarne la forza.
Il vento la combatte e lei gli si para contro, per trarre dall’impeto più vigore, per carpire dallo scotimento più baldanza.
La ginestra pontiana non suscita simpatia e nemmeno immagini graziose.
Le sue foglie, piccole e appuntite, servono per accudire la pianta non per valorizzarla.
I fiori, di un giallo spento, tendono a nascondersi.
Sono la copia mal riuscita dei fiori della ginestra comune. Questa è carnosa, turgida, coi fiori giallo sole, e profumati.
Ginestra comune (Spartium junceum) e sotto, particolare dei fiori
La sorellastra pontiana sembra esaltarsi soltanto al vento impetuoso, proveniente dal mare.
Di forza, carico di salmastro, arriva. Cattivo. Essa regge l’impeto, ne attenua il livore graffiandolo e mordendogli il corpo.
Così si nutre. Prende identità. Si sazia.
In poca terra, arida e sassosa, la ginestra pontiana si impingua di vento. E cresce. A dispetto. Come il Ponzese.
Come il ponzese che racchiude l’universo nel fazzoletto dell’orto della casa, dello spicchio di mare, respirato dalla finestra.
Tutto lì. L’acre gracidìo del falco a fargli sollevare gli occhi dal solco duro della catena. Il ponente combatte con l’isolano in caparbietà. Zappetta e sarchia e dissoda e innaffia con l’acqua piovuta dal cielo, e le folate da ovest bruciano le foglie, atterrano i gambi delle verdure.
Benedette quelle zolle avare e quell’acqua rapita al dilavo che precipita a mare.
Dove con sbalzo aereo si apre la casa. Essa, rifugio dalle procelle e scrigno in cui crescere affetti, amori e comunanza.