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Viaggi (5). Mal d’Africa (seconda parte)

di Sandro Russo

 

L’insegnamento. Le attività accademiche “sul campo”
Gli studenti somali, nell’Università Italiana dove insegno, sono volenterosi e ambiziosi: più che fare i medici nel loro paese vogliono andare all’estero e diventare “ricchi”: in Italia o in America. Le ragazze sono abbastanza numerose, emancipate e non velate. Il regime, che si professa ‘socialista’, favorisce ‘le pari opportunità’.
Prima di accedere ai corsi di Medicina gli allievi fanno un addestramento intensivo alla lingua italiana, il che spiega la presenza degli insegnanti di lingue tra i ‘professori’.

Un’attività che i ragazzi odiano (ma non possono sottrarvisi) mentre alcuni dei docenti la considerano fondamentale, sono le ricerche ‘sul campo’, generalmente finalizzate alla preparazione delle tesi di laurea. Si va per villaggi sperduti, utilizzando come guida uno degli studenti, di solito originario della zona. Spostamenti in jeep fin dove è possibile, poi a piedi o come capita; non si sa bene cosa si troverà.

Guida il manipolo di circa cinque persone, l’epidemiologo-infettivologo della facoltà – anni dopo lo rivedrò in televisione, rettore di una importante università italiana: – Toh! Chi si rivede! Piccolo il mondo!
Sicuro e attento nel ruolo di capogruppo, con una grossa tanica – un thermos da cinque litri d’acqua – sempre per mano.
Lo studente che funge da ‘pratico locale’ è alquanto a disagio sulle prime; come se si vergognasse delle condizioni di vita primitive del suo popolo. Ma poi si rinfranca e si concentra sul suo compito. Attraversiamo sentieri di campagna, zone di sabbia e arbusti spinosi; anche corsi d’acqua da guadare con il sistema rudimentale della chiatta tirata su un cavo d’acciaio teso tra le due sponde.

A volte, ad una svolta del sentiero, ci si para davanti un enorme baobab.
Altre volte, per caso, ci si ritrova in un campo di cotone (…Io che ci faccio qui? …Nei campi di cotone, quelli dello zio Tom?);
Altre volte è l’emozione per la bellezza gratuita di un albero fiammeggiante (flamboyant) in mezzo al verde.
O altre scoperte di piante sempre nominate, ma mai “viste con gli occhi” (…il caffè, il karkadè! )…

Arrivati a destinazione – nessuna macchina, solo terra battuta tra le capanne, poverissime ma dignitose e pulite – l’aspetto più delicato è l’incontro con il capo-villaggio.

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La conversazione si svolge di solito all’ombra di una acacia maestosa, nello spiazzo centrale del villaggio; può essere laboriosa e sfiancante. Il giovane studente funge da interprete. Il capo deve essere convinto e dare il suo benestare ad una visita medica e a dei prelievi (sangue, urine) da eseguire sui membri della comunità. Il punto critico è la credenza che si possano fare pratiche magiche avendo a disposizione sangue e urine delle persone (…o unghie e capelli).
A volte, dopo tanto parlare, l’autorizzazione non viene data. Il Capo è gentile e ospitale – fa portare del thè (chai), manghi e papaye – ma altrettanto deciso e irremovibile. In quel caso salutiamo e torniamo indietro con nulla in mano.

Quando lo sbocco della trattativa è positivo, ciascuno del gruppo esegue il compito che gli è stato affidato con rapidità ed efficienza.
Malgrado la difficoltà della lingua si impara a leggere la storia medica dei pazienti visitati dalle cicatrici sul loro corpo. Le ‘bruciature’ o cauterizzazioni della medicina tradizionale hanno una sede specifica e diversa per ciascuna malattia. Con un po’ di esperienza, si ‘legge’ la loro pelle come una cartella clinica.
Quella loro pelle vellutata e odorosa… Parola del nostro dermatologo: – Ero venuto a curare le malattie della pelle… Ce ne sono eh! …Ma me ne torno sbalordito! Questi hanno una pelle che è una meraviglia!

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In villaggi simili a questo si svolgevano le spedizioni ‘sul campo’ (v. testo). Le capanne hanno il tetto di paglia e le pareti di fango secco. Per il rivestimento esterno il fango è mescolato a sterco di animali erbivori, che lo rende resistente all’acqua

La città
La casa dove abito sta in collina, con una bella vista sul mare e sul porto di Mogadishu.
Di notte, tra i versi degli uccelli notturni e gli alterchi delle scimmie arrivano suoni di musica occidentale. Dischi di musica classica, e a volte anche il suono di un pianoforte; forse dalla casa dell’ambasciatore inglese che sta proprio sopra di noi.
Ah! Il fascino discreto del mondo coloniale, nutrito a Graham Greene, Conrad e Somerset Maugham…

La notte ha un profumo soave che resta sconosciuto a lungo, fino a che per caso una sera non mi scontro con il fiore che lo produce. Si tratta della Plumeria alba, ed è il mio primo incontro con lei.
I profumi di un paese sconosciuto sono un mistero che può ossessionare… Bisogna essere curiosi, chiedere in giro, qualche volta uscire di notte con una torcia in mano e seguire una traccia – ma non troppo lontano da casa – stando ben attenti a dove si mettono i piedi e sperare di non fare cattivi incontri.

La sera è anche il momento della comparsa dei ’mbara ’mbara: il nome locale di una specie di scarafaggi rossastri dotati di ali, abbastanza tipici del posto, appresi. Sono animali che danno da pensare: pare che risalgano le fogne, quindi sono anfibi. Sono in grado di volare ed hanno una corazza così dura che per schiacciarli bisogna saltarci su a piè pari con gli zoccoli. E’ dura da ammettere, ma sono ben più adattabili e resistenti dell’uomo (…l’ultimo grido dell’evoluzione: i ’mbara ’mbara erediteranno la terra?)

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La casa è anche una specie di camera di compensazione con il mondo esterno, che a volte può diventare molto ostile. Come la volta che un messo dell’ambasciata italiana fa il giro di tutte le residenze per avvisare di non uscire, che c’è una specie di coprifuoco. La guerra dell’Ogaden non sta andando bene per il paese e ci sono state delle sommosse interne soffocate nel sangue. L’emergenza dura solo qualche giorno, ma prima che finisca c’è un brutto episodio: una notte siamo svegliati da grida, poi passi di corsa, il crepitio di un fucile mitragliatore e altre grida ancora.
Tutti svegli, nella casa degli italiani; nessuno riesce più a dormire con l’angoscia che monta, la confusione delle notizie, l’incertezza del futuro. E’ che da occidentali siamo abituati ad altre regole e ad una sicurezza che basta poco a dimostrarsi illusoria. Ma l’Africa è anche questo.

Quando piove pesante (heavy rain) – succede spesso – la zona in basso, rispetto alla nostra residenza sopraelevata, si allaga, essendo l’intera città sprovvista di fogne. In questo caso la mattina, per andare al punto d’incontro con la jeep per la facoltà, ci si arrotolano i pantaloni alle ginocchia; quando non basta si tolgono, e si va in mutande.
Non si è molto formali; tra l’altro si fa l’abitudine alle scimmie che ad ogni angolo di strada copulano in atteggiamenti che appaiono umani in modo imbarazzante.

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Sul muro di cinta della casa è addossata una bouganvillea maestosa, pianta che da allora in poi ho sempre associato all’Africa; la nostra sta mezza fuori e mezza dentro il cortile della casa.
Il cortile è ampio e biancheggiato a calce.
Di giorno Jeylani ci lava i panni e ci fa la brace per cucinare. Di sera è abitato da un’altra presenza. All’imbrunire, qualunque tempo faccia, monta di servizio il nostro guardiano notturno. Ogni residenza ne ha uno; fa parte delle dotazioni della casa e non viene pagato direttamente da noi. Agli abitanti della casa spetta però di fornirgli il pasto serale.

Il nostro è un uomo alto, magro e dignitoso, di età indefinibile: quasi vecchio, ma non del tutto; irradia un senso di maestà e di forza tranquilla.
Penso a lui – senza averne peraltro mai visto se non nei documentari – come a un guerriero Masai …Un Masai non farebbe mai il guardiano di notte, mi dico… Però se capita che vada io, ad aprirgli, non resisto alla tentazione di guardare se ha la lancia, con sé (…non ce l’ha mai!).

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Arriva sul far della notte; si lava accuratamente, stende un lenzuolo a terra e fa le sue devozioni. Lo vedo la maggior parte del tempo in piedi, ma immagino che per la notte si accucci nella stretta guardiola.

Nel suo giorno libero settimanale Jeylani gli lasciava un pasto già preparato. Da quando ci sono io, mi sono proposto di sostituirlo in questo compito; lo ritengo un onore. E’ un pasto molto parco – un piatto di riso o poco più – e lo preparo con cura, ma neanche so se i guerrieri Masai in pensione diano importanza al gusto o no, magari, alla quantità o a chissà cos’altro. So che quel momento – portargli il cibo e ricevere in cambio il suo sorriso bianco e gli occhi scintillanti nella notte – mi è restato infisso nella memoria.

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La vita quotidiana. Le attività subacquee
Insieme al collega romano, quello della cena ‘dal Cinese’, andiamo spesso al mare. Appena fuori dalla città, e lontano dal porto, c’è un luogo balnenabile, con una struttura rudimentale di accoglienza: ci si può spogliare e lasciare le proprie cose. Anche mangiare, al ritorno dal mare. Aragoste pescate con le proprie mani o anche ordinate e preparate sul posto, per poche rupie.

Al Lido si arriva in ‘taxi’, ma su questa parola bisogna capirsi. C’è un andirivieni di vecchie Fiat che fanno su e giù per il lungomare della città, che è anche la strada principale. L’autista si ferma a chiunque faccia segno fino ad un numero di cinque passeggeri, lui incluso. A volte il taxi si ferma, ma sembra non debba salire nessuno; la portiera si apre e si arrampica, striscia sul sedile un uomo deforme per una poliomielite allo stadio delle deformità più invalidanti.
Me li hanno fatti vedere i primi giorni, indicandoli come ‘uomini ragno’ (…abbiamo già visto come i rudi cooperanti non brillino per esprit de finesse, con la lingua). Spesso chiedono l’elemosina; a volte fanno piccoli lavori sedentari, come i calzolai. Le loro gambe sono piegate in modo inverosimile e possono solo trascinarsi a forza di braccia, poggiando il bacino o i moncherini delle gambe su un carrello basso o su copertoni di pneumatici tagliati. Per il resto sono esseri umani: parlano, ridono anche. Ma questo è un assunto teorico. E’ prenderci il taxi insieme che te lo fa capire davvero!

Comunque arriviamo al Lido con i fucili subacquei (a molla) che ci siamo portati dall’Italia. Il mio amico si studia accuratamente le maree e sa quanto tempo possiamo restare, prima che la corrente diventi tanto forte da trascinarci via. C’è una fascia di acqua bassa poco dopo la riva che si estende per più di cinquecento metri, prima di trovare acque più fonde.
Si può pescare anche lì, nelle pozze dove rimangono intrappolati i pesci, ma andiamo di solito oltre il reef.
Ci hanno consigliato di non portare i pesci con noi, per la scia di sangue che si portano appresso, ma a distanza, legati ad una lunga sagola. I pescicani ci sono e si sentono raccontare storie truculente su di loro.
Un giorno che stiamo tornando a riva con un carniere di belle prede sentiamo uno strappo alla sagola. Via! …Andati 50 metri di filo e tutti i pesci presi… Meglio loro che noi! Ma quando si comincia a entrare in paranoia, a tirare indietro le gambe con la sensazione di averle sottratte appena in tempo alla bocca di uno squalo, allora è meglio tornare.

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Immagini da una rara battuta di pesca con una barca d’appoggio (di solito si partiva dalla spiaggia). Il problema era prendere il minimo che si potesse consumare di lì a qualche ora, perché per il caldo il pescato rapidamente si deteriorava

Si possono fare cattivi incontri sott’acqua. Abbiamo imparato a stare attenti – oltre ai guanti, molta attenzione! – al lato in ombra degli scogli, dove possiamo rimediare una pericolosa puntura dalle spine dorsali del lion fish o pesce scorpione (Pterois volitans):

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Anche i serpenti d’acqua sono pericolosi, per fortuna molto schivi: ci siamo evitati a vicenda:

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Ma i pericoli sott’acqua vengono da dove meno ti aspetti…

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Un nostro amico tecnico di radiologia che qualche volta esce in mare con noi, ha avuto una brutta avventura con un pesce palla. Carino… con quel musetto simpatico… si avvicina a sfiorargli la bocca… e quello stringe! Non ha denti, ma il morso è stato tale da fargli pensare che avrebbe perso il dito o che sarebbe affogato!

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I cosiddetti “pesci palla”  – varie forme, dimensioni e associazione di colore, ordine Tetraodontiformes -, hanno ha capacità, quando si sentono in pericolo, di ingurgitare grandi quantità di acqua ed assumere l’aspetto di una palla spinosa. I loro visceri contendono anche un potente veleno ad effetto paralizzante

Il mare incontaminato riesce a dare anche altre emozioni; immagini che continuano a tornare nei sogni. Come una immersione casuale, in un posto dove non siamo mai stati prima. Ci troviamo davanti ad una parete verticale di roccia che al primo sguardo sembra muoversi, tremolare: come per quelle diffrazioni causate da strati d’acqua a diversa temperatura. Ma lì il mare è uniformemente caldo. Guardiamo meglio… La roccia è traforata da migliaia di anfratti da ciascuno dei quali emergono le antenne di un’aragosta: migliaia di aragoste! Quello che non si crede, a raccontarlo, è che ci siamo buttati sulle aragoste con una bramosia frenetica e da ripetute immersioni abbiamo recuperato solo antenne monche, ma nessuna aragosta. Serviva un ferro apposito, per tirarne fuori almeno qualcuna, ma non siamo più riusciti a ritrovare quel posto dopo che la corrente ci ha trascinato via.

Ricevimenti africani
Come gruppo rappresentativo di italiani all’estero i miei colleghi e io riceviamo qualche volta degli inviti ufficiali. Come per l’inaugurazione del nuovo ospedale pediatrico (messo su dai cinesi, mi pare: a quel tempo il regime aveva una alleanza strategica con Russia e Cina, che fornivano anche sostegno economico e opere pubbliche). La sede del festino è nel giardino interno del nuovo edificio; ci sono piante trapiantate da poco e grandi foglie di banani messe come festoni. Il buffet è un lungo tavolo guarnito anch’esso di foglie di banani, che vengono usate anche come vassoi su cui appoggiare il cibo. Molta gente è in piedi e si serve come può; gli ospiti di riguardo, tra cui i medici della Cooperazione, vengono fatti sedere su un terrapieno ad un lato della tavolata, e mescolati ai notabili di qualche potente clan locale. Mi ritrovo a fianco un grasso signore gioviale, con una tunica dai colori sgargianti, che si fa premura di indicarmi i cibi migliori in una lingua incomprensibile: ma questo sarebbe il meno. Il fatto è che prepara per me con le sue mani, dalla grande foglia a centro-tavola, delle polpettine speziate e me le dà da assaggiare. Appare molto contento del mio apprezzamento, si lecca le dita e riprende con rinnovata lena a nutrirmi. Ci scambiamo sguardi disperati, con i colleghi, ma da quello che vedo gli altri non sono messi meglio di me: l’ospitalità è sacra e va onorata!

Di tutt’altro genere il ricevimento offerto presso l’ambasciata degli Stati Uniti (…era ancora quel mondo!) a tutto il team degli italiani, per non so quale brillante intervento compiuto sulla caviglia dell’augusta moglie dell’ambasciatore. Ci presentiamo tirati a lucido e un po’ intimiditi; ai cancelli picchetti di marines che scattano sull’attenti (…Ma proprio per noi? Ci guardiamo attorno stupiti!). La padrona di casa, splendida americana cinquantenne casual-chic, ci riceve in tunica bianca e a piedi nudi (…impossibile non guardarle la caviglia guarita!). Una scala contornata di gelsomini profumatissimi porta ad un terrazzo aperto sul golfo dove è imbandito un buffet ‘all’italiana’: salumi e raffinatezze che la maggior parte di noi aveva dimenticato da un pezzo, date le limitazioni collegate all’osservanza musulmana e all’economia di guerra del paese. Mentre si brinda a champagne penso che non può essere vero… che sto in un film! Mi aspetto da un momento all’altro che un Hemingway con la barba bianca – Papa doc – compaia nel vano della porta e ci cacci via tutti, in malo modo: – Italian go home..!

Out of my Africa
Negli oltre tre mesi passati in Africa mi ero giornalmente confrontato con un senso di inadeguatezza. E’ che quando vieni in contatto con un mondo nuovo e diverso – e l’Africa è davvero un altro pianeta – ti sembra di avere davanti una montagna, da cui ogni giorno stacchi scaglie (sassi, macigni) di comprensione. In ogni momento conviene guardare al poco che si è fatto, piuttosto che all’enormità che resta, per non farsi prendere dallo scoramento. All’inizio assesti grandi picconate di sgrezzamento: cominci a dare nomi alle cose che vedi, significati ai comportamenti delle persone.

Una parte non secondaria in questo processo di penetrazione ha per me il riconoscimento del mondo vegetale intorno; le spedizioni al mercato insieme a Jeylani erano fondamentali, al riguardo.
Con il passare dei giorni, poi dei mesi, l’entità delle scoperte fatte ogni giorno si riduce e contemporaneamente hai la sensazione di cominciare a muoverti al ritmo e con le regole del posto. Ma quanto questa impressione sia illusoria ti viene ricordato da piccole cose incomprensibili che di tanto in tanto ti capitano e ti fanno riconsiderare tutto: la montagna sta sempre là, anche se ti senti incongruamente fiducioso e sicuro.

Nell’ultimo periodo del mio soggiorno ho cominciato ad aver paura: Avevo visto così tante cose nuove, da allargare la mente e cambiare la vita, che quasi sul punto di tornare sentivo di dover evitare ogni rischio… le stesse battute di pesca fuori dalla barriera.
Come quando hai trovato un tesoro e non vuoi che succeda qualcosa sulla via del ritorno, che te lo porti via. Contavo i passi, le ore…

Pensavo che quello che tornava non era lo stesso che era partito, solo tre mesi prima; portavo dei regali di un artigianato sconosciuto – tutte cose che ora sarebbe vietato esportare – piccole sculture in ebano, il legno nero e durissimo, borse di zebù fatte su misura, gioielli in oro e avorio. Ma pensavo che neanche fosse questo il tesoro più grande… Niente di comparabile con l’esperienza, l’allargamento degli orizzonti geografici e mentali, il ricordo dei grandi cieli d’Africa, il sole enorme basso sull’orizzonte, al tramonto…

Avevo sottovalutato la centrifuga della vita quotidiana.
Al ritorno ripresi esattamente il ritmo di prima, ritrovai gli stessi problemi e le stesse modalità di reazione, come se quel viaggio non mi avesse insegnato niente, quel periodo fosse passato invano…

Invece le ricadute di quel periodo hanno agito per una via inaspettata, indiretta. Niente viene perduto mai davvero di quel che si vive intensamente; semmai ritorna sotto forme diverse.
Da allora questo è stato lo spauracchio di ogni mio viaggio, da contrastare con tutte le forze: che le esperienze fossero accantonate, appiattite, sommerse e infine dimenticate; solo un timbro in più nel mucchio dei passaporti scaduti.

Epilogo
Ho ripreso in mano foto quasi dimenticate e spolverato ricordi messi da parte per anni. Sono tornato qualche altra volta in Africa, ma nelle isole intorno (Madagascar, Socotra); mai più nel grande continente. I miei viaggi successivi mi hanno portato in sud-America e soprattutto in Oriente.
Neppure mi sono più interessato al destino della Somalia di cui ho sentito di tanto in tanto solo brutte notizie. Il regime al potere durante il mio soggiorno è stato definitivamente rovesciato nel ’91, ma già in seguito alla sciagurata guerra con l’Etiopia per le alture dell’Ogaden aveva perso ogni credibilità. Del ’93 è il fallimento della missione dell’ONU “Restore Hope” cui partecipava anche l’Italia. Cancellata ogni speranza, il paese si è dibattuto nelle convulsioni di una sanguinosa guerra civile di cui ancora non si vede uno sbocco.

Se la nostalgia era il sentimento prevalente distillato dai ricordi di Karen Blixen – il titolo inglese del suo libro “Out of Africa”, contiene una nota di rimpianto che il titolo italiano “La mia Africa” non ha – non è stato così per me.
Il pensiero della Somalia che ho conosciuto nel ’78 e dell’Africa in generale è, nei miei ricordi, doloroso.
Vi avranno sicuramente contribuito la cattiva coscienza di europeo; colpe accumulate nei secoli che sembra si siano cristallizzate in situazioni non più modificabili; e poi fattori esterni – i rivolgimenti climatici, la tragedia dell’Aids – non aggredibili per la volontà positiva individuale o di piccoli gruppi.

Altre tragedie abbiamo vissuto, in giro per il mondo: in terra d’Asia – nello Sri-Lanka – persone e cose conosciute e amate sono state travolte dalla furia dello Tsunami del 26 dicembre del 2004.
Ma non è stato lo stesso. In quel caso rimboccarsi le maniche è venuto spontaneo; ricostruire è stato naturale.

Con l’Africa è andata diversamente.
Immagino – spero! – sia solo un modo personale di sentire, una risposta caratteriale alle esperienze vissute, ma il mio sentimento prevalente, al pensiero dell’Africa, è la perdita della speranza.
Impossibile da vincere, pesante da sostenere.

 

Nota dell’Autore
Per non farmi riprendere in fallo da “fuori tema” e per non sovraccaricare l’articolo, l’appendice “Piante d’Africa” verrà allegata come file .pdf: in preparazione

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[Viaggi (5). Mal d’Africa (seconda e ultima parte sull’Africa) – Continua]

Per l’articolo precedente sul tema dell’africa, leggi qui [12]

Appendice del 5 ottobre (in file .pdf): la-mia-scoperta-dellafrica-attraverso-le-piante-fotoracconto [13]