Attualità

25 settembre. Sandro Pertini: 120 anni dalla nascita

segnalato dalla Redazione
ponza-il-lungomare

 

Qualche giorno fa (23 sett.), in relazione con l’anniversario della nascita di Pertini (25 sett. 1896 – 24 febbr. 1990), il quotidiano “La Repubblica” ha pubblicato un servizio sul personaggio, uomo e politico – due articoli, rispettivamente a firma di Giancarlo De Cataldo e Michela Bompani – corredandolo di una grande foto di Ponza (il lungomare di Sant’Antonio) più o meno ai tempi del soggiorno di Pertini sull’isola.

Li pubblichiamo integralmente, con le due pagine (in file .pdf), in fondo.

 

IL PERSONAGGIO
In occasione dei centoventi anni dalla nascita riemergono alcune lettere inedite del più popolare inquilino del Quirinale scritte durante il confino inflitto dal fascismo a Ponza e a Ventotene


Pertini, il nonno che volle una vita spericolata

“Non ci prendono più”, urlò a Juan Carlos dopo il gol di Tardelli nella finale ai mondiali dell’82
Da partigiano coltivò l’idea di una mattanza di gerarchi fascisti in stile Quentin Tarantino

di Giancarlo De Cataldo

L’immagine che è passata alla Storia, scolpita nel cuore di un’intera generazione di italiani: l’anziano signore che scatta in piedi al gol di Tardelli nella finale del mundial spagnolo dell’82, esultando come un ragazzino, e rivolto a re Juan Carlos, ai suoi vicini, all’universo mondo che segue in diretta l’evento, agita l’indice e assicura: «Non ci prendono più, non ci prendono più». Quella sera nelle piazze d’Italia si ballava, si cantava, ci si tuffava nelle fontane. Ci si sentiva sfrenatamente italiani.

E l’anziano signore, col suo trasporto passionale che rompeva ogni regola di etichetta, era, a un tempo, il simbolo e il garante di questo spirito elettrico che ci pervadeva.

Pertini: il nonno di tutti gli italiani. Di Sandro Pertini ricorrono, domenica prossima, i centoventi anni dalla nascita e per chi conosceva la sua storia, l’approdo alla figura del vecchino rassicurante aveva qualcosa di paradossale, se non di riduttivo. Si portava appresso un sentore di melassa, un “volemose bene” che non aveva niente di pertiniano.

Ma il fatto è che non c’era un solo Pertini, quella sera, nella tribuna d’onore.
C’erano tutti i Sandro Pertini, con le loro vite dure, spericolate, estreme.

C’era il pacifista divenuto suo malgrado eroe di guerra. C’era il giovane avvocato socialista dalla lingua tagliente –“u brichettu”, lo chiamavano, il cerino, per quanto facilmente s’accendeva – che rompe con il fratello in camicia nera e poi ne piange la morte.
C’era l’organizzatore, insieme ad Adriano Olivetti, della fuga di Turati in Corsica.
C’era l’esule, imbianchino e comparsa del cinema, che si vende una masseria di famiglia per impiantare la prima radio libera antifascista d’Europa, costantemente sorvegliato da spie travestite da fuoriusciti.
C’era il condannato dal Tribunale Speciale che accoglie la sentenza al grido di “viva il Socialismo!”, si fa quattordici anni fra ergastolo e confino con la pena di volta in volta rinnovata per ordine personale del Duce, manda a quel paese la madre che ha osato chiedere la grazia, e anni dopo ammonirà i giovani magistrati: non credetevi mai esseri superiori perché investiti del potere di giudicare, ve lo dice un condannato a morte che ha imparato molto più dai suoi compagni di pena che da chiunque altro. C’era il capo militare della Resistenza, che contribuì a condannare a morte Mussolini. C’era il partigiano che aveva coltivato l’idea di una mattanza di gerarchi fascisti e nazisti in occasione di un raduno al cinema Adriano di Roma: chiuderli dentro e farli fuori in un colpo solo. Come nei “Bastardi senza gloria” di Quentin Tarantino.
Il partigiano che nella lotta durissima e intransigente contro la dittatura rinverdiva la tradizione mazziniana del “fatto del pugnale”, convinto che l’abbattimento del tiranno fosse il primo passo verso la libertà. Regicida, semmai, non certo terrorista.
C’era il detenuto del braccio della morte di Regina Coeli che evade grazie alla rete clandestina socialista beffando le SS: mentre quelli li cercavano, lui e Saragat brindavano alla fuga dall’appartamento del dottor Monaco, il medico del carcere, partigiano, come sua moglie Marcella.
C’era il custode inflessibile della memoria resistenziale, l’autore dell’incendiario discorso di Genova contro il congresso dell’Msi. Ci furono scontri, e morti. Pertini fu accusato di aver aizzato le masse. Rivendicò, senza scomporsi. E oggi molti storici ritengono che quel discorso abbia di fatto inaugurato la stagione del centro-sinistra.
C’era il Presidente della Camera che, di fronte allo scandalo dei ministri pagati dai petrolieri per ottenere leggi di favore, esorta piangendo i giovani “pretori d’assalto” ad andare avanti senza guardare in faccia a nessuno, socialisti inclusi.
C’era il combattente che, nei giorni del sequestro Moro, intima a chi gli è vicino: se dovessero mai prendere me, non trattate. In nessun caso.

Erano tutti lì al Santiago Bernabeu di Madrid, quella sera. Il nonno era tutti loro, e tutti loro erano il nonno. Erano tutti lì a esultare, i tanti Pertini, alla fine di tutte quelle esistenze apparentemente inconciliabili. E noi, confusamente, noi lo sentivamo.

Sentivamo il nonno, ma anche il partigiano, il lottatore, l’idealista, l’incorruttibile, il pacifista che sogna di svuotare gli arsenali e riempire i granai e persino il soldato che riconosce l’ineluttabilità della violenza. Ci riconoscevamo in tutti loro, e il nonno non era che l’ultima sintesi.
Eravamo reduci dalla terribile stagione del terrorismo, Pertini, tutti i Pertini, ci avevano presi per mano quando eravamo a un passo dalla dissoluzione, ci avevano trascinati fuori dall’oscura “notte della Repubblica” e ci avevano accompagnati verso il futuro.
Non sapevamo esattamente che cosa ci attendeva. Ma intanto ci fidavamo.

[Da “La Repubblica” del 23 settembre 2016; Cultura, p. 56]

LE LETTERE
Le parole in codice in quei messaggi alla madre e all’amico avvocato

di Michela Bompani

«Il basco lo desideravo molto. Quando ero in Francia lo portavo perché è molto comodo, specie d’inverno»: è il 10 ottobre 1935 e Sandro Pertini scrive dal confino di Ponza a sua madre, Maria Muzio.
È dal 1929 che Pertini sconta la condanna a dieci anni e nove mesi per l’attività antifascista. Come fine pena, poi, nel 1940, viene giudicato «elemento pericolosissimo per l’ordine nazionale», riassegnato al confino per altri 5 anni e trasferito sull’isola di Ventotene.
La lettera alla madre, così come altre al suo avvocato e amico fraterno, Gerolamo Isetta, “Nino”, fanno parte di un carteggio inedito che contrappunta la vita dei due amici per oltre cinquant’anni, dal 1919 al 1970.
Centoventi lettere scritte da Pertini fino al 1946 saranno pubblicate a dicembre in Caro Pertini… Caro Isetta, da Sandra e Flavia Isetta, figlie di Gerolamo.

Nella lettera dell’ottobre 1935 alla madre, Pertini esprime gratitudine per gli indumenti ricevuti, oltre al basco, le calze, i fazzoletti, il pigiama e pare quasi vezzeggiarsi con «l’ottimo l’impermeabile. Troppo elegante sarà questo vostro Sandro che non è più abituato a vestirsi di sua iniziativa con la cura e con la ricercatezza di una volta [ricordi, mamma?]».

«In tante lettere Pertini torna sull’abbigliamento: per lui si tratta di argomento fondamentale per ribadire la sua dignità», spiega Sandra Isetta, docente all’Università di Genova. «Ribadisce che il confino è una forma di lotta, perché la sua stessa persona perseguitata è la testimonianza attiva delle angherie del fascismo. E che la dignità passa per l’immagine che si dà a chi ti sta perseguitando ».

In Pertini, il rigore non significa freddezza, ma è presupposto per una inarrestabile passione politica, che quattordici anni fra carcere e confino, dal 1929 al 1943, non riescono a sopire. «Ed io invece sono ancora un povero uomo preso dalla febbre della lotta politica, irretito in tante umane passioni, con il cuore colmo d’amore, sì, ma anche greve d’odio», scrive Pertini all’amico Isetta, in un’altra lettera da Ventotene, il 7 marzo 1943, dove è costretto al confino, insieme ad Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi.
«Pertini continua a combattere dal carcere e dal confino», spiega Isetta, «e molte di queste lettere, ho scoperto, contengono una sorta di codice cifrato».
Pertini utilizzava la corrispondenza familiare per far arrivare (o ricevere) messaggi e informazioni precise.
«Se le lettere dirette a nostro padre, pure sorvegliato dal fascismo, erano lette, quelle alla madre erano meno controllate. È lì che abbiamo trovato gli indizi. In una, si parla di un dentifricio, Odol, in altre si citano medicine stranissime».
La studiosa ha individuato una sorta di triangolazione tra Pertini, la madre e l’avvocato Isetta in cui le informazioni rimbalzavano: «La fama all’estero di Pertini cresce in questi anni grazie alle sue parole provenienti dalla prigionia».

[Da “La Repubblica” del 23 settembre 2016; Cultura, p. 57]


File .pdf
da “La Repubblica” del 23 settembre 2016: da-repubblica-pertini-il-nonno-che-volle-una-vita-spericolata


Nota

Il sito ha dedicato al personaggio e alla stagione del confino a Ponza numerosi articoli; per il primo aspetto, digitare – Pertini – nel riquadro CERCA NEL SITO, a sin. in Frontespizio (12 schermate x 7 articoli ciascuna = 84 articoli attinenti)

1 Comment

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  1. Rita Bosso

    25 Settembre 2016 at 14:15

    Riferisco la testimonianza della maestra Rosa Migliaccio che, negli anni Ottanta, accompagnò la sua classe in visita al Quirinale.
    Rosa insegna a Roma; prepara i suoi alunni di quinta elementare alla visita, consegna a una bambina una foto di Ponza, le suggerisce di mostrarla al Presidente e di chiedergli se riconosca il luogo.
    Un bambino domanda: ”Signor Presidente, Lei era contento quando si trovava a Ponza?” e Pertini, con tono burbero: “Contento? Come avrei potuto essere contento? Io ero prigioniero!”
    La bambina mostra la foto, pone la domanda concordata con la maestra, il Presidente le chiede se sia di Ponza, la piccola risponde che no, lei non conosce Ponza ma la sua maestra viene da lì; così Rosa, che ha cercato di tenersi dietro le quinte, viene tirata in ballo e interrogata.
    Il cognome Migliaccio ricorda a Pertini l’avvocato con cui giocava a carte, “il mio amico avvocato” precisa, ed effettivamente Rosa è nipote dell’avvocato Gaetano Migliaccio, morto negli anni Sessanta.
    A scanso di equivoci, va precisato che Pertini non trascorreva le giornate giocando a carte, passeggiando in abiti eleganti, amabilmente conversando con la gente del paese e amoreggiando. La frequentazione con l’avvocato Migliaccio aveva una giustificazione, pertanto era consentita dal severo regolamento confinario: gli avvocati Migliaccio e Sandolo difendevano i confinati nei processi presso la pretura di Ponza.

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