di Vincenzo (Enzo) Di Fazio
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Trovo Teresa sull’uscio d’ingresso del museo comunale intenta a smanettare sul proprio telefonino.
Sono da poco passate le 21, un’ora in cui di norma si è intorno ad un tavolo a cenare.
Non c’è molta gente in giro per Ponza nonostante siamo a metà luglio. La signora Francesca, che ho incrociato poco prima davanti il suo bel negozietto di teli da mare, di vestitini per bambini e tanti articoli fatti a mano, mi sorride e alla domanda “come va?” non fa nulla per nascondere la preoccupazione per come vanno le cose.
“A Ponza non viene più la gente di una volta…” mi dice e, continuando, “quest’isola, che vive ormai solo di week-end congestionati e chiassosi, quale futuro potrà avere?” “Quest’anno, forse ancora il prossimo, e poi chiudo, a malincuore… ma chiudo”.
Ritrovo l’amarezza delle parole della signora Francesca nella delusione che mi esprime Teresa per come sta andando la mostra.
“Bell’inizio, buona visibilità ma francamente mi aspettavo più gente “ e, poi, con un punto di malessere “come è difficile fare cultura a Ponza!?”.
Le dico che la gente è distratta, non legge, non si informa, segue l’onda lunga delle abitudini, sembra che preferisca non sapere e, quindi, è necessario “catturarla”, incuriosirla, interessarla quasi singolarmente oso dire, altrimenti procede per abbrivio in questa società liquida dove c’è sempre meno voglia di pensare.
Eppure la mostra è bella e interessante.
L’assenza di persone consente a Teresa di prendermi simbolicamente per mano e farmi da guida in un viaggio per immagini tra le fresche mura, rese candide per l’occasione, dei locali del museo.
Sono esposte le opere di tre autori (tra cui lei) che sembrano, di primo acchito, non avere niente in comune tra di loro esprimendo e rappresentando, tutto sommato, stili e mondi diversi che suscitano anche emozioni e considerazioni diverse.
Eppure un filo conduttore c’è. E’ nel mare, presente in tutte le immagini con la sua forza e i suoi misteri.
Quel mare che, con i colori blu cobalto o verde smeraldo, mi ritrovo davanti ai piedi in sei enormi gigantografie quando entro nella sala grande. Bella trovata questa di Teresa di “tappezzare il pavimento d’acqua” perchè è questa la sensazione che provi al cospetto di quelle gigantesche immagini.
Mi imbatto così nel verde smeraldo delle acque di Ponza (ritratte da Teresa) su cui vola pacificante un gabbiano, elemento piccolo ma al contempo dominante per la capacità che ha di mitigare, attraverso la vita che simboleggia, la soggezione che si prova davanti alla grandiosità del mare.
Più in là, sempre sul pavimento, un’immagine di Raffaele Livornese, il fotografo subacqueo: vi è ritratto nei suoi splendidi colori un pesce scorpione con in alto, a debita distanza come se fossero spaventati, una colonia di piccoli pesci (forse sardine). Ancora più su si intravede oltre il pelo dell’acqua la rotonda luminosità del sole.
Proseguo ed ecco i barconi colmi di migranti in una foto aerea di Marco Alpozzi.
La sproporzione tra le dimensioni delle barche e il mare che hanno intorno, il carico umano che solo la presenza di colori diversi fa di quella massa un insieme di persone danno il senso del dramma di tutto coloro che non ce la fanno e che il Mediterraneo, inesorabilmente, inghiottisce.
Il viaggio prosegue alzando gli occhi verso le pareti dove la natura, i misteri degli abissi e le storie dei migranti si combinano in tre mini racconti che – sembra strano – non fanno fatica a stare insieme.
Al di là del mare che fa da collante tra i tre percorsi c’è un’altra cosa che li unisce: lo sguardo verso il futuro che prende forma da un elemento prevalente di ogni singolo racconto: la speranza negli scatti di Marco Alpozzi, il mistero della vita in quelli di Raffaele Livornese e il recupero dell’identità isolana negli scatti di Teresa.
Marco Alpozzi è giovanissimo, ha solo 28 anni e le sue foto recano già il marchio dei fotoreporter di frontiera, di quelli coraggiosi, di quelli che credono nella forza testimoniale della fotografia.
A parte la gigantografia adagiata sul pavimento mi colpiscono tre scatti in ognuno dei quali la vita si impone sul dramma della scena grazie ad un sorriso, ad una mano tesa, alla protezione verso un bambino.
Gli scatti di Raffaele Livornese ti portano in un mondo quasi surreale, quello sottomarino, che così poco conosciamo, dove vivono creature straordinarie che sembrano uscite da un sogno onirico o dalla fantasia di un inventore di favole.
Guardandole attentamente, di quelle creature si colgono le movenze, le complesse architetture corporee, i colori straordinari… in una parola i misteri della vita.
il “minaccioso” sguardo di una piccola bavosa
Infine gli scatti di Teresa nei quali domina la natura prorompente dell’isola con le sfumature dei colori dell’alba, con i giochi di luce in cui il mare diventa complice, con i pastelli delle case che si riflettono nelle acque del porto, con i vigneti recuperati e curati a dispetto delle difficoltà del luogo e dove è ancora l’uomo con il suo lavoro a far si che si possa guardare al futuro.
Straordinaria l’immagine dell’isola in una giornata di tramontana dove le terre di un orizzonte fatto non solo di mare fanno compagnia alleviando, come poche volte capita, la solitudine e la lontananza.
Le foto di Teresa sono “pulite”; si nota che sono venute fuori da momenti di riflessione, di meditazione e di conciliazione con l’isola quando questa, finita la rumorosa estate, si riappropria della propria identità.
Termino il mio “viaggio” fermandomi di fronte alla foto che ritrae un bicchiere di vino con il faro del porto sullo sfondo: dico a Teresa che ritengo quell’immagine simbolica e beneaugurante per il riscatto di questa terra bella e complicata.
Sorride… ci salutiamo mentre la ringrazio per il tempo che mi ha dedicato.
Mancano un po’ di giorni alla chiusura della mostra e forse c’è ancora tempo per vederla e continuare a parlarne.