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Premessa. Mi auguro che a nessuno venga una crisi di orticaria, venendo a conoscenza – oltre che del mio amore per la lingua latina – della mia straordinaria passione per la lingua greca.
Ed allora partiamo dall’etimologia della parola: sindaco.
Deriva da due termini della lingua greca: “syn”, preposizione che si usa per il complemento di compagnia e che si traduce: “insieme” e “dike” che significa: “giustizia”.
Quindi il sindaco è colui che vive insieme alla giustizia, in sua compagnia.
Non si diventa sindaci per iniziare a vivere insieme alla giustizia, ma si perfeziona la propria vita, vissuta insieme alla giustizia, per continuare a seguirla.
Per il bene comune.
A parte l’amore per la giustizia che ha permeato la vita passata del sindaco, l’ideale è che questo primo cittadino (“primus inter pares”):
- non abbia scheletri nell’armadio;
- non abbia conflitti di interessi;
- non abbia cause pendenti con chicchessia;
- non abbia nemici personali;
- non abbia “crediti” o “debiti” con i politici;
- non si sia “appecoronato” a nessuno.
Il capo vero (sostiene qualcuno), per essere tale, deve essere: amato, stimato e temuto (!).
Non il sindaco, che, equilibrato e disponibile, è amato e stimato da tutti i suoi concittadini. Tutti. Sia quelli che lo hanno votato che quelli che non lo hanno votato.
E mai temuto.
Da nessuno.
E la sera il sindaco può continuare ad andare a dormire “con il cielo stellato sopra il suo capo e la legge morale dentro il suo cuore”. Sempre. Per tutto il tempo del suo mandato, come ha sempre fatto anche prima di essere stato eletto.