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L’esperienza e la memoria (1)– con dedica a Franco (De Luca) Immagino che ognuno di noi porti sulle spalle, fin dalla nascita una di quelle gerle che i contadini e le contadine, soprattutto in Lombardia, usavano, una volta, per portare a casa o viceversa, in campagna, tutto il necessario. Questa cresce insieme a noi. A mano a mano che cresciamo, ognuno di noi ci butta dentro ogni sorta di oggetti dalle forme più disparate: quadrate, tonde, alte, basse ecc.
Ad un certo punto, per vari motivi o circostanze, chi prima e chi dopo, ognuno ha dovuto fare una cernita delle forme. Scegliere, cioè, ciò che gli sembra più consona ai propri interessi, alle proprie peculiarità, alle proprie prospettive. Così gira il mondo.
Ciò ci fa propendere verso un oggetto invece di un altro è soprattutto la forma, perché la sostanza è, fondamentalmente, sempre quella. Essa può essere fatta di materia dura come il ferro oppure fredda come la pietra, oppure soffice come la lana o delicata come la seta. Penso che ciò sia un bene altrimenti tutto diverrebbe arido oppure amaro e grezzo come il sale marino che da bambino mi divertivo a raccogliere, sia pur graffiandomi mani e piedi sugli spuntoni scuri ed aguzzi, tra le pozze degli scogli, che, a pelo d’acqua, si allungano nei pressi d’u casecavall’. Orbene con il passare degli anni noi ricordiamo la forma degli oggetti che abitano in fondo alla gerla ma non possiamo sentire più la loro consistenza al tatto. Nemmeno le possiamo più vedere sia perché giacciono oramai, lontane, nel fondo, sia perché, introdotte senza poterci voltare, non sappiamo con precisione in quale angolino siano andate a posarsi. Pertanto le possiamo vedere soltanto con gli occhi della memoria che, però, non sempre è precisa. Ma ciò potrebbe riscaldare il cuore e rendere dolci anche gli affanni correnti. Non è, pertanto, nostalgia della vita trascorsa perché, tra l’altro, sarebbe cosa inutile, ma il ricordo potrebbe, forse, insegnare qualcosa o almeno semplicemente infondere, nella sua evanescenza, pace e serenità. Come il vento che non si ferma mai e fa lievemente sciabordare le onde sulla battigia… Voi, che abitate sull’Isola, forse queste cose le avete costantemente sotto gli occhi e magari per questo, non ci fate più caso; io invece, e come me tantissimi altri, devo andarlo a cercare, andare incontro al respiro del mare e al solo al vederlo i polmoni si riempiono..! Così soavemente o impetuosamente si deve far conoscere ciò che di buono ed anche meno buono si possiede nella gerla, sperando che altri possano trarre insegnamenti. Vita dura e perigliosa, costellata di sacrifici, di fatiche, di rinunce, nella quale il dolore e la morte erano in agguato dietro l’angolo. Ricordo una persona che morì per un semplice chiodo arrugginito che gli era penetrato nel piede. Non so se non esistesse l’antitetanica o se mancasse, ma lo ricordo ancora… Così ad esempio, come già detto, si utilizzava due volte la “ posa “ del caffè, si bollivano i “ rufoli” che si mangiavano come secondo piatto o si inventavano pietanze povere ed altro di cui ho già parlato. Oppure si utilizzava il ferro filato e/o si piegava il chiodo al volere dell’uomo adattandolo a varie mansioni. Al posto di laccetti di ferro filato rivestiti di plastica, per legare i tralci della vite si usavano ’i gghianeste (ginestre) oppure ’a stramma , e una ’ncannucciata serviva a riparare i delicati limoni dal furioso e freddo levante. Dalle prime luci dell’alba il bidente risuonava lungo i pendii del Pagliaro o “ abbasci’ u Ffien” ed il solco, dagli Scotti fino alla Calacaparra, era bagnato dall’abbondante sudore del contadino. Alla stessa ora, la donna, in casa, apriva l’uscio dalle ante di legno, accendeva il focolare con legna o carbone per riscaldare, tra l’altro, anche ‘a zupp’i latte per i bambini che, con occhi cisposi e nasino colante, lasciavano le pesantissime coperte per andare, a piedi nudi, a bagnare leggermente gli occhi con l’unica acqua (fredda) riposta nella bacinella di ferro smaltato. Si cercava, insomma, di risolvere i tanti e ponderosi problemi con tutti i mezzi a disposizione anche se poveri, confidando nelle proprie forze ed anche con l’ausilio della comunità. Quella durezza mi fa ripensare a quando, mancando lo schiaccianoci, si cerca di rompere con i denti, il guscio bitorzoluto di una noce: si prova un po’ di qua, un po’ di là fino a che quello cede oppure in alternativa, per raggiungere lo scopo si usano altri oggetti duri rinvenuti sul posto. Ciò che vado a dire, quindi, non è né un atto di accusa né biasimo né nostalgia del “tempo che fu”, ma vuole semplicemente raccontare un’esperienza vissuta.
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