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Spigolature di storia

di Francesco De Luca

terreni-degli-Scotti [1]

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Le influenze straniere fanno parte della nostra storia: quella patria, quella meridionale e quella isolana. Interferenze inglesi, spagnole, francesi nella lingua, nelle abitudini, sono state accertate e documentate.

Ponza e la sua cultura sono infarcite da tali contaminazioni. Ne ho appurata una di recente che vi partecipo prontamente.

A Ponza il terreno, specie quella terrazzato, degradante verso il mare è distinto in catene. Di solito contenuto da una parracina con all’interno ‘u puòie, tenuto a mò di canaletto per lo scorrimento dell’acqua piovana, e all’esterno ‘a merna, anch’essa tenuta pulita dalle erbacce per dar modo all’acqua di drenarsi per non far danno.

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A me ‘a catena, specie lì dove i terrazzamenti seguono il declivio del colle, ha sempre evocato un senso di stabilità. Anche dietro la suggestione per il modo come veniva assoggettata la natura alla necessità dell’agricoltura. Si sceglievano le pietre, si piantavano a terra e, con l’alzarsi del muro a secco, si riempiva di terra lo spiano in modo tale da permettere all’acqua pluvia di defluire lasciando intatta la costruzione del muro. Che si reggeva per effetto dell’incastro delle pietre e del drenaggio. Un’opera che abbisognava di tempo, di braccia, di sapienza contadina. Qualità impossibili da trovare in una sola persona e perciò si collaborava: quelli della famiglia, del vicinato. Per rendere fruttifero il terreno scosceso.

Parracine-e-catene [3]

‘A catena, emblema di una società solidale che aspirava a divenire comunità. Come fu la società dei coloni, nostri progenitori.

La stessa parola catena, inoltre, ha evocato in me un senso di appartenenza, come un legame che tenesse avvinti gli isolani al territorio in modo vitale.

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Scrissi pure questi versi anni fa in “Chiena ‘i mare “ pag.23:

“ A me ‘a catena d’ i parracine

me pare nu segno chiaro

ca primma

‘a vita s’affruntava assieme,

nsieme resistenno a ‘u male,

nsieme pruvanno ‘u bbene”

a testimoniare quanto fosse stato incisivo il legame fra l’isolano e la sua terra.

A scompaginare questa poetica immagine si è insinuato il signor Edmund Gunter (Wikipedia) che sviluppò nel 1620 un metodo di misurazione del terreno agricolo con una apparecchiatura a bassa tecnologia. Utilizzò una catena con 100 collegamenti di lunghezza fissi, attaccati l’uno all’altro, per un totale di 20,1 metri.

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catena di Gunter esposta al Campus Martius Museum – Marietta, Ohio 

Tale misurazione ebbe sviluppo negli Stati Uniti e in Inghilterra, e non è difficile pensare che da lì si trapiantò nel regno di Napoli, permeabile agli influssi britannici dopo la furia della Rivoluzione francese e ancor più con l’espandersi delle mire napoleoniche.

Cosa porta a dedurre tutto questo? Che ‘a catena all’origine non attestava il terreno terrazzato bensì la misura del terreno coltivato.

A vanno ‘u ciglio tengo tre catene” : significava che si possedevano circa 60 metri di terreno (non necessariamente tre terrazzamenti).

Catena: unità di misura della lunghezza del terreno agricolo.

E’ una ipotesi valida? Certamente. Va ad unirsi a quella che ho esposto nelle righe precedenti. Non c’è conflitto, o meglio io non reputo esclusiva l’una ipotesi contro l’altra. La ragione mercantile, daziale, che tenne banco durante la fase dell’attribuzione delle terre ai coloni (giacché se ne doveva stimare il censo), non elimina la volontà dei coloni stessi di industriarsi per unire le forze e le volontà nel soggiogare la terra al loro bisogno.

Per accertare se l’ipotesi sia valida basta confrontare la lunghezza delle catene seguendo l’unità di misura di Gunter.

A me pare veritiera.

A voi il giudizio finale.

Il fascino di una nuova conoscenza è tale che mi porta a ringraziare chi mi ha suggerito la ricerca. E’ stato Silverio Mazzella, detto brigantino. Urto la sua ritrosia, lo so, ma gli tocca.

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