Ambiente e Natura

La storia del beccaccino e di “sciancatelle”, l’upupa ferita

di Vincenzo (Enzo) Di Fazio

il beccaccino

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Nipote di cacciatori, figlio di cacciatore, non sono un cacciatore.

Ho avuto un nonno che era un grande cacciatore, ho avuto un padre che cacciava nel rispetto delle regole quando, in servizio al faro della Guardia, tornando a casa di mattina presto si imbatteva, sotto la scarrupata, nelle quaglie migranti che in primavera venivano dal mare.
A volte ero con lui e, devo dire, che in quei momenti mi sentivo istintivamente dalla parte degli uccelli al punto da gioire, senza manifestarlo, quando i colpi della “doppietta” non andavano a segno.
Mannaggia, è ‘a polvere ca nun è bbone” diceva mio padre ed io, quasi ad incoraggiarlo “E’ vero, papà, tu si’ brave a spara’… è ‘a polvere ca nun è bbone”:

Nell’età dell’adolescenza, quando la mente è confusa, quando non si è ne carne né pesce e l’unica certezza è l’incertezza ho provato anche io ad imbracciare la doppietta dietro invito ed insistenza di mio padre. Perchè era cosa da farsi, passaggio obbligato sul sentiero verso la maturità; saper cacciare voleva dire fare qualcosa che era propria dei “grandi”, “arte” attraverso cui vedevi schiusa una delle porte che ti rendevano adulto.
Come, secondo alcuni, la sigaretta o l’andare a donne…

Una mattina di novembre, mentre tornavamo dal faro, mio padre mi indicò, facendo degli strani gesti senza parlare,  un beccaccino che si stava rifugiando dietro una macchia. Mi porse il fucile ed insistette a farmelo imbracciare visto un mio primo cenno di rifiuto.
Mi disse di mirare nella direzione dell’arbusto e in un orecchio mi sussurrò che avrebbe fatto cenno al cane per stanare l’animale.
Avvenne tutto in pochi secondi; vidi la bestiola alzarsi, presi mira e bum bum due colpi, uno dopo l’altro.
Una sfumata di penne e poco dopo avevo ai miei piedi, portata dal cane, la vittima di quell’azione di cui mi sarei poi pentito tutta la vita.

Beccaccia e spinone
Appena più grande di un tordo giaceva ancora vivo e palpitante quell’essere indifeso mentre il cane scodinzolava in attesa di una carezza fiero di quanto aveva fatto. Mio padre mi diede una pacca sulla spalla dicendomi: “Bravo! prometti bene”.
Mi inchinai, presi il beccaccino tra le mani e sentendo sotto i polpastrelli delle dita i battiti di un cuore che ancora pulsava provai un lacerante malessere ed un profondo senso di vergogna.
Da quella volta non ho più preso un fucile in mano né ho più sparato un colpo in vita mia.

Mi è capitato invece di trovare degli uccelli feriti e di curarli, soprattutto quando ero a Zannone.
Negli anni 60 l’isola era, ad eccezione di una piccola zona intorno al sito del faro, tutta riserva di caccia in fitto al marchese Camillo Casati Stampa di Soncino. E c’erano periodi in cui avvertivi fin dalle prime ore del mattino la presenza dei fucili con l’eco delle schioppettate che arrivava fin giù a mare assieme all’odore acre della polvere bruciata.
Erano altri tempi che, per fortuna, sono finiti.

Zannone

Una volta – un giorno di inizio estate – trovai, rannicchiata in un angolo del cortile del faro, impaurita e tremante, una piccola upupa, quella che in dialetto chiamiamo centraualle, uccello bellissimo del quale ho ritenuto sempre impropria la descrizione di figura funerea che ne fa Ugo Foscolo nell’ode “Dei Sepolcri”.
Meno male che ci ha pensato poi Eugenio Montale a dargli giustizia definendolo ilare uccello calunniato.

eugenio_montale_00

Era ferita ad un’ala che penzolava ancora sanguinante. Quando mi avvicinai fece un balzo e avendo poco spazio per fuggire tentò di difendersi beccandomi. Ci volle poco per acchiapparla e, tenendola tra le mani, i battiti accelerati del cuore che avvertii sotto i polpastrelli delle dita mi spinsero indietro con la mente all’episodio del beccaccino di qualche anno prima.
Era l’occasione per riscattarmi per cui promisi a me stesso che avrei fatto l’impossibile per salvarla.
Non l’avevo mai vista così da vicino con i colori dominanti del bianco e del nero delle ali. Mi apparve subito curiosa per quel becco e quel collo sproporzionatamente lunghi rispetto al corpo e per quel ciuffo che alzava ed abbassava di continuo probabilmente a seconda i diversi stati emotivi.

Upupa 3
In quel periodo c’era anche mia madre a Zannone e lei era molto brava a disinfettare, medicare, suturare  avendo imparato i rudimenti infermieristici già in giovane età.

Con tanta pazienza ed amorevole delicatezza riuscì a ripiegare l’ala verso il corpo e a fasciarla dopo averla fermata con un bastoncino.
La ponemmo poi in un piccolo spazio recintato della cucina mettendole a disposizione una tazzina con l’acqua e delle mollichine di pane.
Ho un ricordo vago del tempo che impiegò per guarire, quello che ricordo è che non riuscì mai ad alzarsi in volo pur avendola lasciata libera nel cortile. Probabilmente qualcosa non era andata bene nella medicazione…
L’abbiamo vista saltellare per casa per tutta l’estate, anche quando l’abbiamo portata a Ponza.
Da un libro sugli uccelli che mi avevano regalato in occasione della prima comunione ricordavo che le upupe sono ghiotte di vermetti che tirano fuori dal terreno con il lungo becco, così mi adoperavo a procurargliene un po’ cercandoli nel bosco.

Ci accorgemmo, a Zannone, che non disdegnava nemmeno le formiche; aveva infatti individuato una fessura in prossimità della porta della cucina dove si notava spesso un via vai di questi insetti e fin quando c’è stato lei nei paraggi le formiche non sono riuscite ad attecchire.
Mia madre le aveva trovato un nome, “sciancatelle” per il suo modo di andare un po’ dinoccolato a causa di una piccola protuberanza ad una zampa e sembrava che, quando la chiamava, lei la capisse.
Ogni mattina me la ritrovavo vicina al lettino quasi a darmi la sveglia.

il faro
Mia madre mi raccontava che le diceva “Sciancate’ va’ a sceta’ Enze” e l’upupa, seguendo il braccio di mia madre che indicava la stanza dove dormivo, piano piano, un po’ guidata un po’ da sola, arrivava fino al mio letto.
Un giorno – eravamo a Zannone – non l’abbiamo più trovata; la porta della cucina era aperta, c’era il sole e faceva caldo; evidentemente “sciancatelle” era uscita a prendere una “beccata” d’aria. L’abbiamo cercata per un bel po’ tra il cortile ed il giardino e intorno al faro, maturando qualche sospetto verso i due gatti che facevano compagnia ai fanalisti ma… non abbiamo trovato né piume, né penne sparse in giro.

Mi sono sempre sforzato di credere che sciancatelle avesse recuperato all’improvviso l’orgoglio, l’energia e la forza per librarsi in volo per continuare a volare e guardare dall’alto questo piccolo mondo e la sua gente.

 

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