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Referen(dum-dum). 
Novella distopica

di Tano Pirrone
Immagine dal sito www.thetowner.com [1]

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Il piccolo uomo era seduto, come ogni giorno, ormai da anni, su una vecchia comoda poltroncina, che aveva visto i suoi giorni migliori alcuni decenni prima, quando egli aveva deciso di stabilire con l’Isola un rapporto più profondo, meditato e di scambio.
Anche lui aveva vissuto tempi migliori; l’età non aveva cancellato, però, la forza e la tenacia di contadino e la curiosità e il piacere di conoscere e sperimentare che lo aveva accompagnato per tutta la vita. Sotto l’ombra di un albero, da lui stesso piantato all’alba del terzo millennio, ricco di rami e foglie, orgoglioso produttore di ombra, fresco nelle ventilate estati, siepe robusta ed efficace contro il maestrale, che in inverno soffiava dal mare senza pietà per piante, animali e persone. Davanti a sé, ben fermo, un tavolino con un blocco di carta ed una penna a sfera, un bicchiere pieno a metà di acqua e limone ed una tazzina da caffè coperta dal suo piattino rivoltato.

Come ogni mattina, aveva fatto una frugale colazione con pane casereccio abbrustolito, con su, spalmato con cura, uno spesso strato di marmellata di limoni ed una tazza di latte di capra, senza aggiunta di zucchero e di caffè. Il caffè lo beveva di solito appena sveglio, dopo averlo preparato con la vecchia moka; conservava il resto nella tazzina per bagnarsi le labbra di tanto, così freddo e amaro. Come ogni mattina prendeva appunti con mano ancora abbastanza ferma per essere un vecchio di ormai 87 anni e usava, per vedere meglio, un paio di occhiali malconci, con le suste fermate da pezzi di fil di ferro verde, di quello in uso ai giardinieri.

Il vecchio, l’albero, la casa e il tavolino, radicati sulla piccola collina che dominava il lembo nord dell’Isola, stavano in posizione privilegiata per osservare il mare e, all’estremo dell’arco dell’ampia visuale, il Faro, immobile sul promontorio che sin da bambino egli aveva rassomigliato, per via della forma, alla groppa di un docile drago domato da tempo immemorabile e per magia.

La luce era bianca come se ad illuminare il giorno ci fosse un sole a led; le ombre, minime, prendevano poco spazio sulla terra quasi priva di erba e in forma di zolle secche ed irregolari. Il contrasto fra la luce ed il mare lontano era duro, innaturale.
Non c’era, come una volta, quell’intimo legame di toni che davano il senso della continuità e, a qualcuno, quello profondo dell’immensità. Netto lo stacco fra la luce bianca e un’immota distesa grigiastra, non uniforme, con lunghe strisce più scure, a volte anelli irregolari, sinusoidi bizzarre, improvvisi repentini arricciamenti, che poco – ma proprio poco – ricordavano le antiche tirreniche onde.
Il silenzio era uno spiedo in cui l’immobilità dell’aria e dei luoghi erano infilzati e attorno al quale giravano lentamente per tutto il lunghissimo giorno di prima estate.

Un silenzio fuori luogo in quel periodo, in quei mesi, che per decenni erano stati palcoscenici gioiosi per comitive di villeggianti e per occasionali branchi di turisti giornalieri o poco più. Erano andati sparendo poco a poco col mutarsi della luce e del colore del mare. I riflessi metallici che giungevano da oltre la scogliera avevano sostituito pian piano, senza darlo a vedere, l’azzurro del cielo e il blu profondo del mare.

Tutto era cominciato con un’impercettibile modifica alla Legge di stabilità (che in barba al suo nome rendeva spesso ancora più incerto il già precario equilibrio delle classi sociali meno attrezzate e protette e i soggetti più deboli: allungare la durata delle concessioni, permettendo alle Compagnie di estrarre ancora per decenni senza pagare un centesimo. A seguire, un referendum voluto dalle Regioni interessate, l’invito del Governo a non andare a votare, di andare piuttosto a mare, e la risposta secca, senza mezzi termini, di chi voleva che lo sfruttamento avesse termine: “Trivella tua sorella!”.

Sull’Isola un pingue risultato: 75 elettori su cento non erano andati a votare. Che ne caleva a loro delle trivelle, quello era un problema delle Tremiti, di mari quasi mari o non più mari. Loro stavano a bagno nel Tirreno barbuto e tridentato, sempre a caccia di giovani ninfe, di impudiche bagnanti estive, di sapide rinunce ai pur piccoli top.
Nell’antico mare nessuno avrebbe mai piantato una trivella, ma scherziamo? Troppo profondo il mare, troppo importante l’Isola e nota e con tanta storia dentro, sotto e tutt’attorno. Troppo tutto per farle fare la fine invereconda di cloaca a cielo aperto ch’era ormai diventato il mare non più mare in Adriatico.

Poi, però, grazie alle maglie aperte dall’esito dirompente (Dum-Dum) della consultazione, anche nel Tirreno si cominciò a trivellare, e anche nei pressi dell’Isola sorsero stazioni di estrazione. I primi tempi, a parte i soliti allarmisti, retorici conservatori di un mondo destinato ad essere dominato e volto alla produzione di ricchezze e di potere andò tutto per il meglio: tutto esaurito negli alberghi e in ogni altra struttura ricettiva, trattorie e ristoranti sempre pieni…

Improvvisamente apparvero le schiume schifose, i delfini spiaggiati, i pesci morti, il colore del mare che si trasformava lentamente, ed il puzzo portato dalla brezza, che sembrava di stare in raffineria.
Doveva essere successo qualcosa nei pozzi: nel profondo fuoriuscivano fanghiglia nera, nuvole dense di liquido nerastro, che macchiavano l’antico mare e mettevano in fuga ogni forma di vita.
Qualcuno l’aveva detto che il Tirreno è mare buono e caro, ma bisogna lasciarlo perdere perché quando s’incazza so’ cazzi per tutti.
Ma tutti tranquilli, come fosse il pacioso Adriatico, buono da spalmare ed essere asfaltato. Il Tirreno non amava affronti ed era mare vendicativo, profondo e cupo, tenacemente ancorato a terre dure e solide, anche se alcune ballerine. Ballerine, sì, ma sode, tenaci, testarde. Ed aveva restituito con gli interessi lo stupro subito, l’offesa ricevuta, l’affronto umiliante.

S.R., uomo di pace e di bontà rare, alzò lo sguardo dal blocco in cui aveva continuato a scrivere con la testa un po’ reclinata sulla spalla sinistra, con una calligrafia minuta e ordinata, mise a fuoco quello sconcio per lui ormai consueto, tirò un lieve sospiro e si appisolò per l’immancabile siesta di mezza mattina. Sognò di cinema, di libri, di peripli in barca, di viaggi nell’oriente estremo, di bizzarri e naïf compagni di viaggio, di donne amate e tentò di perdere tempo, rifacendo anche due o tre volte lo stesso sogno, pur di non svegliarsi.

Nota dell’autore
Dum-Dum sono chiamati i proiettili che quando entrano nel bersaglio esplodono.
Persone e luoghi sono di invenzione, ma naturalmente l’autore a qualcosa e a qualcuno ha pensato.
Le due pagine di ieri su Repubblica sono chiarissime e anche l’appello della Cei.

 

Immagine di copertina. Da: http://www.thetowner.com/it/utopia-thomas-more/ [2]

Leggi qui nel file .pdf‘Paginone’ di Repubblica del 14 apr. dedicato al Referendum [3]

Dove sono le concessioni. Immagine da Repubblica del 14.04.2016 [4]

Dove sono le concessioni. Da Repubblica del 14 apr. 2016