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Una disgrazia nell’isola. Racconto

di Tina Mazzella

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Lo avevano ritrovato riverso sulla sabbia, il corpo sfigurato e la testa rotta. La corrente lo aveva portato sino alla Marinella dei Morti dopo averlo sospinto per lungo tratto alla deriva sbattendo impietosamente quei miseri resti sopra gli scogli.

Si era trattato di certo di una disgrazia, di una terribile disgrazia, di una tragica fatalità: il vecchio, nonostante i suoi 85 anni, godeva di buona salute, conservava ancora una grande lucidità mentale ed era saldamente attaccato alla vita; non aveva nemici e tanto meno denaro.

Probabilmente si era recato come di consueto a Frontone dove, colto da improvviso malore, era caduto in acqua senza ritrovare poi la forza di rialzarsi; così le onde ne avevano approfittato per sommergerlo e per trascinarlo via.

Alla notizia era accorsa molta gente: il Sindaco, il Maresciallo, l’Ufficiale Sanitario, gli 11 figli del defunto, la vedova tremante nel suo grembiule nero ed una piccola folla di curiosi che i Carabinieri a fatica riuscivano a mantenere discosta dal luogo del rinvenimento.

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Più tardi era avvenuto il riconoscimento: Rocco Scirocco, classe 1912, pescatore per professione ed agricoltore per diletto, marito non sempre esemplare e padre prolifico, 12 figli legittimi ed un numero imprecisato di illegittimi.

Dopo una giovinezza oziosa ed un po’ turbolenta, in età matura Rocco la buonanima si era trovato un lavoro stabile ed era convolato a giuste nozze con Bianchina di 20 anni più giovane, perché, come gli piaceva sottolineare, lui le donne le voleva “belle e fresche come le rose di maggio”.

Bianchina tuttavia non era mai stata bella né aveva brillato per saggezza; aveva bensì appagato il desiderio di paternità del marito mettendogli al mondo ben 12 eredi, tutti di sana e robusta costituzione e, una volta adulti, onesti lavoratori.

Anch’essi si erano sposati, avevano generato abbondante prole e quando tutti insieme si riunivano nella casa paterna, costituivano una vera grande tribù.

Nelle feste comandate il patriarca li voleva puntualmente alla propria mensa ed osservava compiaciuto lo stuolo di generi, di nuore e di nipoti che lo attorniavano, ricchezza e vanto della propria casata.

Solo lei, la primogenita mancava. Mancava perennemente, un’assenza amara ed inspiegabile, l’unica macchia scura della sua famiglia capace di adombrare anche i momenti più sereni. Era un dolore antico ma non per questo meno acuto, una pena segreta che rodeva dentro, al pari di un topo insaziabile ed inopportuno.

Diva se ne era andata per non fare più ritorno, per non dare più notizie di sé, nemmeno un saluto o una cartolina, più niente, proprio come se fosse morta. Ed era morta davvero per lui e per tutti loro!

Eppure Rocco l’aveva amata molto; l’aveva amata più che ogni altra persona al mondo. L’aveva preferita al resto dei figli per la sua bellezza e per la sua allegria.

Diva – persino il nome lo attestava senza ombra di dubbio – era bella come il sole, un’autentica stella dai capelli del colore dell’ebano e dagli occhi grandi di smeraldo. Non aveva visto mai niente di simile lui che pure di donne se ne intendeva.

Per questo aveva sognato per lei un avvenire luminoso, assai diverso da quello che toccava in sorte alla maggior parte delle ragazze dell’isola.

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Si era adoperato con ingegno e pazienza a tessere la trama di quel matrimonio di convenienza certo, ma che avrebbe procurato alla giovane prosperità e successo. E quale importanza poteva avere il fatto che i futuri sposi non si conoscessero neppure di persona e che le nozze dovessero celebrarsi per procura? Tutto si sarebbe risolto felicemente allorché Diva, la splendida Diva allora diciottenne, avesse raggiunto il marito nelle lontane terre d’America.

Ma lei aveva ben altro per la testa e si era ingegnata ad ostacolare con ogni mezzo la realizzazione di quel progetto: i figli, si sa, peccano spesso d’ingratitudine nei confronti dei genitori, non sono in grado di apprezzarne gli sforzi né di valutare la bontà dei loro piani.

Diva aveva pianto, implorato, minacciato e, quando si era convinta dell’inutilità della propria lotta, si era chiusa in un mutismo ostinato e rancoroso.

Il padre però era stato irremovibile, “la buona fortuna bussa una sola volta alla tua porta. Un giorno mi ringrazierai per questa decisione”, le andava ripetendo caparbio e non aveva voluto sentire ragioni; alla data stabilita l’aveva accompagnata a Fiumicino con determinazione. Ma, arrivati all’aeroporto, qualcosa di imprevisto lo aveva colpito come uno schiaffo, un affronto imperdonabile che, colmandolo di stupore, lo aveva lasciato stordito, quasi senza fiato.

La figlia gli aveva preso la valigia dalle mani e, senza un cenno di commiato, senza una parola, senza rivolgergli uno sguardo, gli aveva voltato le spalle avviandosi risoluta all’imbarco. Così l’aveva perduta per sempre.

Per il resto Rocco poteva essere soddisfatto, il bilancio della propria vita era positivo. Gli piaceva fare il pescatore perché sul mare si sentiva libero e leggero; lassù non esistevano le innumerevoli complicazioni derivanti dal contatto con gli altri uomini.

Partiva immancabilmente con il fedelissimo Pietro il Grande, il proprio impareggiabile gozzo, confortevole al pari di una ricca dimora, e, a misura che la terra si allontanava rimpicciolendosi alla vista, gli pareva di essere più contento, quasi più vivo. Circondato da quel deserto azzurro e fluttuante, cantava a voce spiegata mentre il sole cocente di mezzogiorno gli bruciava la pelle ed il sudore salato si mescolava alle fresche gocce di acqua di mare o mentre si accingeva alla cattura di qualche ignaro pesce spada durante le notti misteriose.

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Sulla propria barca non esisteva equipaggio: lui era il capitano e i marinai, lui il mozzo ed il padrone incontrastato. Nessuno dei figli aveva voluto seguire le orme paterne e i giovanotti dell’isola disdegnavano quel lavoro duro, quel lavoro per gente di altri tempi e di altra tempra.

I maligni tuttavia sostenevano che la colpa era sua: Rocco Scirocco non trovava aiutanti a causa dell’inguaribile avidità che non gli permetteva di corrispondere loro la giusta mercede attraverso una più equa ripartizione dei guadagni.

Del resto, difficilmente la vecchiaia migliora il carattere delle persone: più il nostro pescatore avanzava negli anni, maggiormente subiva l’attrazione dei beni materiali. Essi esercitavano su di lui un fascino irresistibile ed il solo desiderio di possederli in gran copia gli metteva addosso una smania, una febbre incontrollabile, la stessa febbre che un giorno lo aveva indotto ad incamerare l’intera eredità paterna, dopo avere sottratto ai fratelli anche i terreni che spettavano loro per diritto. Tuttavia non se ne sentiva colpevole, convinto com’era di avere agito per il meglio ed in completa buona fede. Quei fazzoletti di terra, rimasti per incuria a lungo incustoditi ed improduttivi, sotto le sue robuste mani di uomo di fatica avevano ripreso a dare frutti, erano risorti a nuova vita e, al di là di ogni accusa o assurda rivendicazione, lui e lui soltanto ne era stato il salvatore.

Nemmeno nelle fredde giornate invernali quando la tramontana che riempiva le strade di gelo gli impediva di andare a pesca o di attendere alle attività campestri, Rocco riusciva a fermarsi. Nella grotta umida e corrosa dalla salsedine attigua alla propria abitazione, antico ricovero di pecore e capre trasformato più tardi in un vero laboratorio, il vecchio riparava le reti, districava le nasse, riordinava le coffe e, nei momenti di pausa, si tuffava anima e corpo in quella strana passione nutrita sin da bambino ma che, invece di scemare, si era rafforzata nel corso degli anni. D’altra parte poco gli interessava se essa lo faceva apparire agli occhi di tutti, persino di Bianchina, persino dei figli un essere stravagante, un individuo difficilmente inquadrabile e comunque un po’ diverso dagli altri.

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Con la precisione di un artista e servendosi di tavolette di legno ben levigato, seguitava a costruire modelli su modelli di barche di ogni genere: barche a remi, velieri, canoe, zattere, motoscafi, piroscafi, aliscafi, sommergibili, navi da guerra e da crociera. Rifiniva le sue creature con somma cura, le verniciava con svariati colori ed ogni qual volta la propria collezione si arricchiva di un nuovo esemplare, provava una forte emozione, uno stupore quasi infantile, un intimo compiacimento.

Questo ed altro dicevano di lui parenti e compaesani il giorno del suo funerale e qualcuno recriminava contro la malvagità della sorte che non aveva concesso al poveruomo neppure la soddisfazione di spirare nel grande letto di casa, confortato dall’affetto della moglie e dei figli.

Soltanto ad Alvaro il barista era rimasto un dubbio, forse un sospetto, uno di quei sospetti di cui neppure l’aria deve accorgersi, qualcosa di più di un pensiero molesto che per intere settimane lo aveva infastidito come il ronzio grave e continuo di un moscone impazzito. Lui l’aveva vista. Uno o due giorni precedenti la scomparsa di Rocco, una signora americana di circa 40 anni, dal corpo un po’ obeso e dal trucco pesante, era entrata nel suo bar, si era seduta ad un tavolino ed aveva ordinato un caffè.

Al momento di pagare era avvenuta la rivelazione: i due grandi occhi di smeraldo della donna avevano incontrato i suoi ed allora egli era stato colto da un brivido ed il cuore aveva preso a battergli più forte.

No, non poteva sbagliarsi, erano inconfondibili quegli occhi, li avrebbe riconosciuti tra mille, gli stessi occhi che tanti anni addietro lo avevano cercato, gli avevano fatto infinite promesse prima che qualcuno decidesse di spedirli lontano ad esplorare mondi più ricchi e forse più felici.

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