di Rosanna Conte
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Nell’unica, grande vetrina, in cui ci ha immersi il consumismo, l’8 marzo rischia di perdere la sua nota essenziale: la valorizzazione della dignità femminile.
Sebbene la celebrazione mediatica di questa giornata recuperi anche aspetti importanti della vita delle donne con uno sguardo, tra l’altro, ai problemi più gravi ed evidenti, la sensazione è che si sia propensi a festeggiare più che a riflettere. E’ questa una delle connotazioni del nostro tempo: l’angoscia del futuro, la perdita dei diritti e delle tutele, l’impoverimento costante sono ricacciati indietro alla facciata dell’apparenza, della superficialità, della spensieratezza.
Forse proprio in contrapposizione all’allegria di maniera, oggi vorrei recuperare un momento di profondo e sincero sentimento condividendo una poesia scritta da una donna per delle donne, quelle che sono costrette a scappare dalle guerre, dalle violenze, dalla fame, portando spesso con sé i propri figli.
Anche nella precarietà dell’erranza , la donna non tralascia le amorevoli modalità materne e la poetessa Mariastella Eisenberg, così ce la canta.
Per cena una favola
Verde germoglio
profumo d’aglio
dappresso un tiglio
lontano un miglio
corre un coniglio
ed io lo voglio
lassù sul ciglio
mangia un germoglio
il mio coniglio
e
il bimbo ride
il mozzo irride
lei che sorride
timida intride
mani di fata
e di fattucchiera
nella patata
fatta di cera
e
Ho fame,
mamma,
scoppia la voce…
Aspetta,
figlio,
che ora cuoce…
(la poesia è tratta dalla raccolta Viaggi al fondo della notte. La migranza. L’erranza. La viandanza., di Mariastella Eisenberg, ed. Oèdipus, 2015)
Ungheria, migranti di oggi
Immagine di copertina. Madre migrante, 1936 – foto di Dorothea Lange