Ambiente e Natura

“E andavamo tutti alla Caletta” (10). Il tuffo dal cimitero

di Dante Taddia

 

Con “Il tuffo dal cimitero” si conclude la serie di racconti di Dante Taddia appartenenti alla raccolta “E andavamo tutti alla Caletta”, ambientata a Ponza negli anni Sessanta, quelli in cui l’autore è arrivato per la prima volta nell’isola.
Lo scritto di oggi conclude il passaggio dall’età infantile a quella adulta simboleggiato dal progresso dai primi tuffi in mare di quando si era bambini al “grande tuffo” per antonomasia, quello con cui in realtà ben pochi dei giovani, anche i più prestanti e coraggiosi, all’epoca si misurava.
Quella sorta di iniziazione di carattere sportivo diventa in realtà metafora dei cambiamenti legati alla vita, che in una comunità come quella isolana, per giunta di oltre cinquant’anni fa, significava una crescita per certi tratti forzata e con scarse possibilità di ‘successo’.

I racconti pubblicati finora non sono tutti quelli contenuti nella raccolta, di cui alcuni tra gli amici più cari dell’autore hanno ricevuto a suo tempo l’edizione integrale on line. Agli altri, ringraziandoli dell’apprezzamento e la simpatia con cui hanno letto finora i suoi scritti, Dante Taddia dà appuntamento a quando sarà pronta l’edizione cartacea, da presentare magari in una bella sera d’estate, sotto il cielo di Ponza.

Cimitero e Grotte-di-Pilato


Il tuffo dal cimitero

Era l’ultima tappa. Si diventava uomini veri.
E stranamente, forse proprio per questo spirito di comunione col mare, per quell’incontro che si era pronti a fare e che ogni uomo deve fare, l’ultima tappa nell’evoluzione marino-anagrafica del ponzese era il salto dalla parete del cimitero.

Il cimitero di Ponza è posto sopra un grande ammasso roccioso di tufo bianco e giallo. Le sue pareti sono a picco sul mare e sovrastano le grotte di Pilato, sulle quali è parzialmente posto.

Quasi vicino al finestrone c’è lo sperone roccioso di tufo bianco a picco sul mare, con un dislivello ben più importante del finestrone, circa il doppio, e l’acqua sottostante assicura il suo abbraccio di cobalto con una maggiore profondità.
Il tuffo da lì sopra è veramente la prova decisiva.

Ponza. Il finestrone sotto il Cimitero

E’ un po’ il morire una volta per tutte del ragazzo pronto alle “mattizie”, a cui spesso e volentieri si perdona una certa incoscienza e per il quale si è pronti a chiudere un occhio per qualche vivacità che l’età stessa caratterizza. Ma una volta spiccato quel salto si è uomini, uomini fatti, e il tempo “dd’i uaglione” diventa ormai un ricordo. Ci saranno sicuramente altre prove da affrontare e che saranno più impegnative del salto forse, e certamente più decisive per il loro esito. Ma la prova di quel tuffo è stata per tutti la prova, la sola e unica per passare tra gli adulti.

Chi non studiava o non lavorava già presso qualche negozio paterno, in mare o altro, avrebbe dovuto decidere della sua vita futura perché a Ponza ancora c’era tanta povertà e i mezzi per sbarcare il lunario, tranne la faticosissima e stentata agricoltura o l’altrettanto faticosa pesca, non c’erano.

E bisognava decidere, specie se a qualche ragazza dell’isola ci avevi messo gli occhi addosso e volevi formare con lei una famiglia e garantirle una dignitosa esistenza.

Il turismo poi era una parola che faceva sorridere, erano gli albori e quei pochi francesi del Club Azur che con loro stava muovendo i primi passi, non garantivano molto futuro.

Quindi non rimaneva che uscire dall’isola per andare nel continente o altro. L’altro era l’America.

Questa era la via conosciuta ai più e che i nonni dei nonni avevano già aperto alla metà del 1800.

Non c’è famiglia con la quale parlare e con la quale non trovare comune passato d’emigrante “int’i States” da dove, spesso in vecchiaia, si era tornati per chiudere la propria esistenza nel seno dell’alma tellus di Ponza.

E quel salto le madri lo paventavano, molto più della intrinseca pericolosità che tutte sapevano abbastanza relativa, dato che ‘i ‘uagliune si erano preparati per gradi.

Era la vera cerimonia dell’addio, dopo la purificazione e la benedizione del mare.

Non si saliva da soli: erano sempre quattro o cinque che decidevano un bel giorno: “Nce menamme d’ancopp’ ‘u cimitero?”.

E partivano tutti insieme, erano gli stessi “uaglioni” che avevano mosso i primi timidi passi nel brodo della caletta, che avevano scalato il primo scoglietto e via via erano arrivati lì, coetanei e comprimari di quella rappresentazione che la vita esigeva ora, da farsi però come protagonisti.

Il Finestrone delle Grotte di Pilato_Esterno__

E ce ne doveva essere di pubblico, non solo qualcuno come dentro la grotta di Pilato che serviva da testimone, ma tanti.

Avrebbero riportato ancora una volta a quella madre pensierosa che stava “addrète ‘a Caletta”, che “… i figlie vuoste”, un Gennaro, Silverio, Maurino, Giggetto, Totonno, questi i nomi di battesimo che pochi usavano, molto di più i loro soprannomi più o meno fantasiosi, “se stevene menanne o s’avevene menate da ‘ncopp’ ‘u cimitero”.

Ci si arrampicava da mare, sfruttando le asperità della roccia che l’erosione e il salire aveva reso smussata e addolcita, e si restava qualche attimo fermi in cima a rimirare quel mare così amico/nemico, quel mare di cui si conosceva l’umore alla prima bava di vento se cambiava o restava quieto.

Era una sosta obbligata, per prendere fiato, ma soprattutto studiata, per raccogliere le idee, per perdersi ancora una volta con lo sguardo verso l’orizzonte così lontano e indefinito ma che una refola di maestrale bastava a ripulire, per mostrare il continente, quasi a toccata di mano: Formia, il punto d’arrivo d’u vapore, il punto di partenza di una nuova vita.

Un respiro a pieni polmoni, un respiro di quell’aria salmastra inebriante perché dopo, nel salto, non c’era più tempo per assaporarla o riempirsene ancora una volta la gola.
Un attimo.

Tuffo-ad-angelo

Il salto è spiccato, le braccia aperte a volo d’angelo… librarsi nell’aria, libero dal peso del corpo per pochi interminabili attimi… simbolicamente resuscitare dal cimitero da cui si era compiuto il balzo, per essere una persona nuova.
Un uomo ormai.

Pochi secondi d’iniziazione che col volo di qualche metro culminavano nel ribollire di schiuma all’impatto col mare.

Scendere prima velocissimo nel buio blu del suo ventre, poi più dolcemente, aprire gli occhi e guardare intorno, scendere… scendere ancora un po’, più lentamente… approfittare di quel poco d’aria che ancora preme prepotentemente sui polmoni, scendere ancora un poco, vedere scomparire le grosse bolle, vedere le bollicine che salgono quasi danzando verso la superficie illuminando col loro ruotare la via d’uscita, scendere ancora un poco…

E infine fermarsi, ricambiare lo sguardo di qualche attonito pesce che si meraviglia non più di tanto dell’intrusione.
Nella sua grande saggezza d’abitante e creatura del mare sa benissimo che quell’intruso lo è solo per qualche attimo.
Quell’altro tipo di “pesce” deve uscire all’aria, sempre, se vuole vivere. Quella stessa aria che per lui, abitante del regno liquido, significa morte, per quel pesce piombato dall’alto è vita.

Gli occhi si chiudono.
Per fermare per sempre nella retina immersa nel sale del mare quell’immagine di blu, che sarà perduta dagli occhi come tutte le cose uniche, ma resterà solo nel ricordo di un attimo che ha cambiato la vita.
Per mescolare così una goccia d’acqua salata che è salita da dentro, proprio lì all’angolo dell’occhio, dalla sacca lacrimale, mescolarla con tutta l’altra acqua salata in cui si sta immersi.
Colpi veloci di piedi e braccia, sempre più vigorosi, fanno guadagnare finalmente la superficie.
Tutto è stato.
Niente sarà più così.

Anche se quel salto lo rifarai mille volte e sempre con maggiore perizia, il tuo primo sarà sempre il solo e l’unico salto della tua vita.

Una scossa ai capelli con un movimento rapido della testa, la mano a coppetto per soffiare con forza l’acqua dal naso, respirare, aprire gli occhi, e incontrare quelli profondi e scuri di Mena, di Silveria, Tilla, Tina o chi altra è venuta a vedere, sorriderle, e questa volta ricambiato con un cenno d’intesa e ammirazione.
“Sarà il mio uomo” pensa lei.
“Sarà la mia donna” spera lui.

E tutto senza muovere le labbra, con la forza del pensiero ma con lo sfondo di risolini compiaciuti d’i cumpagnelle…
“Ohi ma’, ’sentite, ije agge decise, non vi pigliate collera… ije parte… ije vache alla Merica… Noo, nun vache ssule… Silverio, Gennaro e Totonno… ‘Ce ne jamme tutte e quatte… Sì, ‘u lavoro ce sta”.

Era un uomo ormai, uno che aveva spiccato il salto, uno che era pronto e che aveva deciso.

Lo comunicava così, alla famiglia.

2 Comments

2 Comments

  1. Adriano Madonna

    3 Marzo 2016 at 21:43

    Non bello, bellissimo questo pezzo di Dante Taddia, che va a concludere la serie “E andavamo tutti alla Caletta”! Ma abbiamo appreso che ce ne sono degli altri nel cassetto del Geologo. Speriamo che non voglia tenerseli solo per sé! Mi sembra straordinario, quindi, che si sia pensato di farne un libro da presentare in una serata tutta ponzese, una di quelle incantevoli di agosto alla terrazza della Torre dei Borboni, come tanti anni fa, quando ci si incantava davanti a una luna grossa così e da giù arrivavano le note delle canzoni che si ballavano “core a core” al Mariroc. Quando leggo di queste cose, quando ricordo queste cose, mi viene da pensare “Com’è bello essere vecchi!” Se non lo fossi, infatti, non avrei di questi ricordi. “E andavamo tutti alla caletta” me li ha lucidati tutti e fatti rivivere con il cuore e con l’anima.
    A quando, dunque, questa presentazione del libro? Cerchiamo di non dimenticarcela!

  2. Luisa Guarino

    5 Marzo 2016 at 15:46

    Ringrazio a nome di mio marito, che non può farlo personalmente per motivi tecnici, Adriano Madonna per il suo costante e crescente apprezzamento. Ma, come è scritto nella presentazione di questo ‘ultimo’ racconto, la versione cartacea di “E andavamo tutti alla Caletta”, soprattutto per mancanza di tempo, non è stata ancora realizzata. Non appena ciò avverrà saremo i primi a parlarne, invitando per primo il prof alla sua presentazione.

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