





|
|||
’A nummenàta, ovvero: cronache di poveri amanti (4). Il matrimoniodi Pasquale Scarpati
A volte l’incontro tra i due “fidanzatini” si prolunga per più giorni.
Non ci sono ancora o sono rare le cosiddette ‘partecipazioni di nozze’, considerate da molti come ‘carta straccia’. Poche sere prima del matrimonio si può avvertire una certa concitazione nei pressi dell’abitazione della futura sposa. È tutto un sussurro, sono cenni d’intesa. Poi, all’improvviso, il suono di una fisarmonica, di una chitarra, di qualche altro strumento: è la serenata dello sposo. La serenata (sul sito: leggi qui) Qualcuno, scherzosamente, la definisce il… “canto del cigno”. Lei si affaccia piacevolmente meravigliata e alla fine invita tutti ad entrare in casa per gustare qualche leccornia preparata dalla madre e da qualche altro parente, di nascosto dalla figlia. Il giorno del matrimonio lo sposo con i capelli unti di abbondante brillantina, indossando l’abito nuziale, aspetta, in chiesa, l’amata che viene accompagnata all’altare dal padre o, in sua assenza, dal parente più prossimo. Il sacerdote, ’u parricchiàn’ o don Michele (Colaguori) suo successore (chi era costui?) oppure don Gennaro alle Forna, oppure don Salvatore, legge davanti agli sposi la formula di rito: “Vuoi tu… prendere per legittima moglie/marito la/il qui presente….. e di onorarla/o ecc… “Gli sposi si limitano, tra la commozione dei presenti, a dire semplicemente il “fatidico sì”. Ciò perché molti sanno leggere a stento o sono ancora del tutto analfabeti. Qualche lacrimuccia scende lungo il viso di qualche astante ma soprattutto della madre della sposina. Una di queste, alla rituale richiesta fatta dal sacerdote agli sposi, presa dall’emozione, anticipa la risposta della figlia. Risatine da parte degli invitati, occhiatacce da parte del sacerdote. Poi lo stesso sacerdote legge ciò che detta la legge e tra l’altro la frase: “…la moglie segue il marito…”. Terminata la cerimonia, prima che il sagrestano spenga tutte le candele adoperando, per quelle poste più in alto, il cosiddetto stuta cannéle (una canna o bastone che ha all’estremità un attrezzo a forma di cono con la base rivolta verso il basso), gli sposi avanzano lungo la navata centrale. All’uscita vengono inondati da una nuvola di confetti. Viva gli sposi..! Viva gli sposi..!
Qualcuno parte per il viaggio di nozze che deve avvenire, per forza di cose, la mattina seguente o nei giorni successivi in base ai collegamenti d’u vapore. A meno che non si è deciso di partire nel pomeriggio della domenica per via Anzio. In tal caso il festino termina con il pranzo. Gli sposi devono essere muniti necessariamente del certificato di matrimonio rilasciato per effetto del concordato dal sacerdote stesso. Qualora non lo possiedono si rischia o di essere tacciati per concubini oppure di non essere accettati negli alberghi. Coloro che non partono immediatamente organizzano il festino che si svolge al ristorante o anche in una casa, dove si radunano parenti ed amici e dove tra una portata ed un’altra si può anche ballare. È anche uno dei pochi momenti in cui i giovani possono scambiare alcune parole e toccarsi senza suscitare scandalo o dicerie. A meno che non si tenta di fare ‘coppia fissa’. In tal caso le solite ‘comari’ iniziano a ripetere il solito ritornello e si dedicano al mestiere della sarta: tagliare e cucire. Ecco “I Duri”. Giungono in tanti; cinque, dieci? Chissà. Ma dove si vanno a ficcare costoro? [Per ‘U festin’ ‘i Forne: leggi qui] Suonano tra una portata ed un’altra. Alla fine del pranzo i tavoli vengono spostati e posti in un angolo. Su di essi si pone il rinfresco fatto di panini e pasticcini. Intorno alla ‘sala’ si pongono le sedie dal sedile di legno o di paglia e al centro si lascia spazio per i balli. Si siedono le donne e gli anziani mentre i giovani restano in piedi. Come gli atleti che si alzano e sono tesi attendendo il colpo di pistola dello start, così essi sono pronti a scattare, non appena odono le prime note, come al ‘Musichiere’, per invitare una ragazza a ballare. Ma l’orchestrina attacca ‘Anema e core’ e gli sposi sono invitati tra gli applausi ad aprire le danze. I due giovani, un po’ schermendosi, vanno al centro della sala e lì si abbracciano teneramente muovendosi lentamente mentre ancora una volta, non essendoci né carta igienica né altro che li possa avvolgere, piovono confetti, ma di altra fattura rispetto a quelli lanciati sul sagrato della chiesa o per la strada. Poi tutti li attorniano ed iniziano a ballare. Accanto ai tradizionali balli di coppia (oggi, segno dei tempi, la maggior parte di essi sono divenuti anche balli di gruppo): valzer, mazurka, tango, ritenuto da alcuni anziani un ballo un po’… audace e foxtrot , i giovani amano cimentarsi, soprattutto, nei nuovi e sinuosi balli sud-americani: cha cha cha, calipso, mambo e rumba ed anche il twist, detto il “contorsionista”. L’orchestrina non smette quasi mai, esaudisce anche le richieste. Qualcuno si improvvisa cantante e fa sfoggio della sua voce intonata. Un altro, stonato, si mette a cantare dedicando il suo ‘canto’ agli sposi. Un altro legge una poesia indirizzata agli stessi. Si forma anche il ‘coro’ che canta “Siamo i Watussi”e altre allegre canzoni. Scoppi di risate ed allegria, battute piccanti rivolte soprattutto allo sposo ed anche ai genitori degli stessi ed in particolare al padre, oramai ritenuto “vecchio” quindi incapace di… Come le api si poggiano sui fiori per succhiare il nettare, così i giovani, la sera, si recano in sala, anche senza essere stati invitati, solo perché amici degli amici. Al loro arrivo si alza un mormorio festoso, gli amici si avvicinano e anche i genitori degli sposi li invitano calorosamente ad entrare. Essi, salutati gli sposi, si tuffano nei balli e danno mostra del loro “talento”, portando, eventualmente, qualche novità nelle figure, specialmente se qualcuno di loro è stato sulla “terraferma” per motivi di studio o altro. Non trilli di telefonini, non sguardi intenti su smartphone o tablet, su tutto e su tutti aleggiano le allegre note musicali rigorosamente dal vivo: batteria, sassofono, fisarmonica, clarinetto ed anche la tromba o chitarra ad allietare la serata e quasi a voler tenere fuori e più lontano possibile tutti i dolori e le privazioni del momento. Ognuno si muove secondo il suo estro. Chi mette i passi a casaccio, chi muove continuamente le spalle da sembrare la barca in mezzo al mare di scirocco, chi è impacciato nei movimenti, chi, al contrario, è ritto come un fuso e si atteggia un po’. Fatto sta che, dopo un po’, le giacche degli uomini sono finite sulla spalliera di qualche sedia, qualche camicia esce fuori dai pantaloni, qualche donna , sudata, torna al suo posto a volte anche zoppicando, ma ridendo. Il partner, premuroso, la segue. Ma già qualcuno diventa impaziente (lo sposo) e vorrebbe fare una“bella cacciata” (una battuta), ma in realtà vorrebbe buttare tutti fuori. Qualcuno ha il viso rubicondo; la madre della sposa lancia, preoccupata, occhiate a destra e a manca e comincia a far capire agli invitati che sarebbe ora di andar via. Il padre dello sposo si avvicina all’orchestrina e, quasi sottovoce, dice che è giunto il termine di porre fine ai divertimenti. Alla fine della cerimonia gli sposi distribuiscono i confetti, rigorosamente in numero dispari, con il cucchiaio e li poggiano delicatamente in un fazzoletto di stoffa o di carta. Se il “festino” si è svolto a Le Forna non è raro che i giovani del Porto percorrano, a piedi e cantando a squarciagola senza essere disturbati da nessuno, la buia strada che collega le due parti dell’Isola. Camminano satolli e soddisfatti sia per essersi divertiti sia per aver dato nell’occhio a qualche ragazza sia per le leccornie gustate. Anche nel dopoguerra, trascorso un certo periodo dal giorno del matrimonio, si comincia a guardare la pancia della sposina. A mano a mano che cresce si incominciano a fare le… divinazioni. Ognuno cerca di capire, da alcuni segni, quale sia il sesso del nascituro ed eventualmente di capire anche se sia uno solo oppure sia una coppia. Qualcuno addirittura litiga, asserendo che la sua è una verità incontrovertibile. Se non accade nulla non mancano le solite illazioni, i sussurri e le solite risatine fino a che la realtà non confuta o meglio ancora “scorna” le malelingue. Poiché manca una qualsiasi struttura ospedaliera, nell’Isola la donna “ accatta” (partorisce) sempre in casa. Il termine viene usato soprattutto per i bambini troppo curiosi, ai quali si racconta che o sono stati “comprati” da qualche parte o sono stati portati dalla cicogna oppure, come già detto, sono stati trovati sotto un cavolo. Un’ulteriore preoccupazione sorge quando la mamma non ha abbastanza latte per allattare il neonato. Non esistendo ancora il latte artificiale o essendo troppo costoso, si ricorre a qualche donna, che in quel momento allatta il proprio piccolo. Questa, volentieri, offre il suo seno al piccolo, donando anche ad altri ciò che la natura le ha dato in abbondanza. Ciò si protrae per molto tempo poiché, tra l’altro, non esistono ancora tutti gli alimenti per svezzare convenientemente i piccoli. Si generano così nuovi legami attraverso i cosiddetti “ fratelli e/o sorelle di latte”. I neonati vengono avvolti in fasce che non sono cambiate troppo di sovente. Quando piange a dirotto c’è chi, al posto del succhietto, porge al piccolo ancora ’a pupatell’, una pezza, cioè, a forma di succhiotto imbevuta di qualche cosa piuttosto dolce. Il bimbo, soddisfatto, si acquieta; gli occhi diventano miccie miccie e, placido, si addormenta tra le braccia della madre mentre lo culla dolcemente cantando vecchie nenie…
Ma queste sono vecchie storie portate d’u viént’ d’a Piazza o raccontate tra un bicchiere ed un altro nella cantina di “ zi’ Gir’ e zi’ Giuditta a Santa Maria o in quella di Ciccill’ d’a ‘Cantina degli Amici’ alle Forna oppure da Rasimiell’ mentre infiasca ’u vino ’ncoppa a’ ponta ianca, là addò Biasiell’ e Bafarone immortalano tutti gli eventi e le persone, (’Sti storie vecchie) …so’ comm’ ’u vvin: chiù invecchia, e chiù è ‘bbuon; se, però – aggiungo io – chist’ ven’ conservat’ ind’ a ’na bbona votta e ’nda na’ cantina fresca. Il passaggio degli sposi per ‘la Piazza’ di Ponza Una foto di matrimonio, di Aristide Baglio
[’A nummenàta, ovvero: Cronache di poveri amanti (4) – Fine] 2 commenti per ’A nummenàta, ovvero: cronache di poveri amanti (4). Il matrimonioDevi essere collegato per poter inserire un commento. |
|||
Ponza Racconta © 2021 - Tutti i diritti riservati - Realizzato da Antonio Capone %d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: |
Caro Pasquale, oltre ai regali, c’erano anche i telegrammi che di solito venivano letti in sala, durante un intervallo delle danze. A farlo era di solito, un “fine dicitore” dalla voce stentorea.
Fino agli anni ’50, inoltre, c’era Veruccio Capozzi che, dispiegando solennemente un foglio di carta uso bollo, rivolgeva agli sposi il discorso augurale. Ricordo l’incipit: “L’alba di stamane ha salutato voi sposi, colmi di amore e di felicità, per l’ideale compiuto, per il sogno realizzato. Ed anch’io mi unisco pari al giorno!”.
Caro Pasquale, mi dispiace di aver letto la parola “fine” in calce a quest’ultimo bell’articolo.
A coronamento – non a commento – delle storie raccontate da Pasquale Scarpati sul matrimonio, vorrei riportare un piccolo aneddoto, divenuto poi barzelletta, che in vita soleva raccontare mio padre Biagio Zecca.
Riferiva, come cornice al rito religioso, che il suo matrimonio, il primo a Ponza dopo le vicende belliche, fu una festa paesana a cui parteciparono centinaia dei suoi concittadini, parenti, amici, conoscenti e non… Ma che importa, tanto si mangiava, si beveva, si ballava e ci si divertiva, così come il bravo Pasquale ha saputo rievocare. Tante freselle con formaggio e salame, litri e litri di vino, tanti dolci e liquori, come non si era mai visto prima.
E così a fine serata – gli sposi non vedevano l’ora che finisse – tutti i presenti si accomiatarono e ringraziarono per tanta disponibilità e buona accoglienza; tutti abbracciavano e baciavano la sposa e lo sposo augurando loro ogni bene con tante belle parole.
Tra i tanti, ci fu un paesano conosciuto come “di sopra i Conti”, che abbracciandolo con l’alito molto vinoso, lo baciò e gli sussurrò all’orecchio: “Biaggi’… curaggie!” e se ne andò zigzagando dint’a curteglia.
Strano modo di fare gli auguri di matrimonio, no? Dico solo che da quel giorno il signore fu comunemente indicato nella nostra famiglia col soprannome di “Curaggie”!
[Da Franco Zecca in memoria di Biagio Zecca (suo papà)]