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’A nummenàta, ovvero: cronache di poveri amanti (1)

di Pasquale Scarpati
Velo nuziale [1]

 

Nel tempo in cui i suoceri erano chiamati mamma e papà e ancora prima quando quest’ultimo era chiamato Tat’ e ai suoceri era consuetudine rivolgersi con il Voi, non era agevole per un giovane entrare a far parte di una nuova famiglia, sia perché molti suoi componenti asserivano che ’u’grass ’n’adda asci’ fore d’a pignàta, cioè i beni non dovevano andare a finire nelle mani di estranei, sia perché non era semplice avvicinare una ragazza.
Pertanto non era raro notare matrimoni tra consanguinei che, pur essendo vietati dalla Chiesa, erano altresì legittimati dietro pagamento di una congrua somma di denaro, come se questa togliesse il grado di parentela.

Se si era al di fuori della cerchia o del parentado i giovani potevano incontrarsi solo in determinate o fortuite occasioni. A loro venivano in aiuto, tra l’altro, le solennità religiose, quando le ragazze potevano uscire di casa, ovviamente mai da sole, ma sempre accompagnate da altre persone: sorelle, parenti e amiche, perché, altrimenti, sarebbe caduta su di loro la mannaia della mala nummenàta.
Questa evenienza era una vera iattura perché, tra l’altro come tutte le maldicenze, era ed è difficile da rimuovere. Quando, infatti, si mettevano in giro certe voci, ognuno ci azzuppava ’u pane. Anzi da una “palatella” o panino, piano piano si arrivava al “palatone” ed anche al “ paniello” quello grande.
Ognuno, infatti, era capace di aggiungere qualcosa perché l’uomo è fatto, anche in questo caso e oserei dire soprattutto in questo, di inventiva e di fantasia. Pertanto ai giovani non restavano che gli sguardi e se lanciati da parte della donna essi dovevano essere necessariamente furtivi.
Una giovane donna, infatti, che osasse guardare diritto negli occhi un uomo era considerata, nella migliore delle ipotesi, una “sfacciata” se non peggio.
Era quasi prerogativa dell’uomo, infatti, “posare lo sguardo…”; dove con il termine posare si potevano già configurare i rapporti tra i due sessi.

Pertanto ’na bona nummenàta andava preservata a tutti i costi. Su di questo si fondava, fin da piccola, l’educazione della fanciulla. Questa, accompagnata da una buona dote, poteva far sperare in un buon partito cioè in un buon matrimonio.
Così tra gli uomini non mancavano i cacciatori di dote cioè coloro che miravano solo a quella.

Il corredo nuziale [2]

I genitori erano deputati sia alla dote che al buon nome della fanciulla.
Essi, sentendosi gravati da questa enorme responsabilità, cercavano in tutti i modi di preservare la fanciulla da qualsiasi “tentazione” e, fin dalla nascita, decidevano, dal punto di vista economico, degli eventuali beni da assegnare e di quanti capi di corredo avesse bisogno.

Per questo, quando si era afflitti o se qualcosa non andava per il verso giusto, gli uomini, sconsolati, solevano dire “Aggie fatt’ ’na mala nuttata e ’na figlia femmina”. Non a caso le due cose si associavano. Perché la nascita di una femminuccia voleva dire solo e soltanto ulteriore spesa per tutta la famiglia e soprattutto insicurezza nell’avvenire.

Era questa una preoccupazione costante ed una delle ragioni per cui i genitori la promettevano fin dalla più tenera età ad uno di famiglia che si pensava, per questo, più affidabile. Meglio ancora se già grandicello rispetto alla ragazza perché in tal caso non solo vi era una certa sicurezza economica ma era anche possibile intravvedere, fin da piccolo, la sua indole ed eventualmente porre rimedio a qualche eventuale “lacuna”.
Non era raro, pertanto, notare tra i due, all’atto del matrimonio, una notevole differenza d’età. L’uomo, infatti, il più delle volte prima assolveva l’obbligo del servizio militare di leva, che aveva una durata variabile in base all’arma in cui era arruolato, e poi convolava a nozze. Per non parlare di quelli che si arruolavano nei corpi di polizia o nell’arma dei carabinieri che obbligatoriamente non potevano sposarsi fino ad una certa età.

L’intervento deciso e primevo dei genitori nella scelta di colei o colui che sarebbe stato compagna o compagno per tutta la vita era dovuto non solo a ragioni economiche, ma anche a ragioni, per così dire, estetiche.

Si sa la maggior parte dei giovani, specialmente se adolescenti, sono stati e sono, ancora oggi, molto più sensibili alla bellezza, al fascino di una persona piuttosto che alla sua consistenza economica. Si soleva infatti dire: un cuore ed una capanna. Ma se da una parte gli adulti non si trovavano per niente d’accordo su questa massima, dall’altra i giovani di quel tempo non avrebbero trovato negli altri coetanei quei canoni di bellezza a cui noi siamo avvezzi nella vita di tutti i giorni o che ci vengono propinati nella finzione televisiva o cinematografica.

La vita grama, il lavoro duro fin dalla più tenera età, la mancanza di rimedi per le malattie o per qualsiasi accidenti che potesse capitare, la malnutrizione, facevano sì che pochi fossero quelli che non avessero alcun difetto fisico pur essendo giovani. Si poteva nascere con dei difetti a cui non c’era rimedio oppure questi potevano verificarsi nel corso degli anni. Bastava, ad esempio, una caduta da un albero per rimanere, nella migliore delle ipotesi, claudicanti per tutta la vita o semplici carie per rimanere con pochi o senza denti oppure bastava ’nu spruoccolo (un legnetto) o una piccola foglia come quella d’olivo che sfiorava un occhio, per rimanere orbi. Per non parlare del vaiolo o di ogni altra malattia che deturpava la pelle ed il viso.

Le donne poi, specialmente se lavoravano in campagna, senza alcuna protezione d’estate e d’inverno, sotto il sole e con il vento, avevano già, in giovane età, la pelle screpolata, piuttosto scura e le mani callose. Non a caso andava di “ moda” la pelle bianca, quando invece oggi ognuno tenta di abbronzarsi. Si può dire che a vent’anni le donne erano già “sfiorite” e un poco oltre erano considerate non più in età da… marito. Forse il pudore, facendo coprire quasi totalmente il corpo con vestiti e scialli, era un modo per nascondere eventuali imperfezioni e/o brutture che la chirurgia estetica o altri prodotti correlati, oggi, hanno pressoché debellato.

Le spese iniziavano da subito, perché vi era da costruire il corredo.
Fin da piccola alla bimba veniva insegnato come accudire i bimbi e come rassettare la casa. Tutto questo non era affidato ai libri o alla teoria ma avveniva “sul campo” cioè praticamente, perché la più grandicella doveva accudire le sorelline o i fratellini più piccoli.
Poi imparava a ricamare, a lavorare ad uncinetto, a maglia ed anche come arrappezzare cioè cucire gli strappi negli indumenti perché sicuramente nella vita sarebbe capitato di doverlo fare più e più volte su questo o su quel pantalone, su questa o su quella camicia perché, quasi sempre, gli indumenti passavano, come un’eredità, dal padre al primogenito e, via via, fino al più piccolo, per poi divenire pezze per togliere la polvere o qualcos’altro.

Per risparmiare ed anche per renderlo più originale, il corredo si comprava senza alcun ricamo e tra le altre cose si aggiungevano anche le fasce per i futuri neonati. Esso era l’indice del benessere della famiglia non solo per il numero dei capi che lo componevano ma anche per la qualità della stoffa: dalla tela di lino, alla costosa tela d’Olanda (famosa era la Bellora).
Era necessario che il corredo avesse un congruo numero di capi poiché il bucato, la cosiddetta culata, non veniva fatta molto spesso, ma ogni dieci o quindici giorni sia perché l’acqua non era sufficiente sia perché mancavano i mezzi ed anche il tempo.

Importante poi la lana (quando c’era) per i materassi, e tra essa si distingueva quella di Tunisi e quella, più pregiata, di Scozia. Se questa non era nel novero del corredo voleva dire che gli sposi avrebbero avuto, come giaciglio, materassi imbottiti di foglie secche di granoturco (’i spoglie) o altro vegetale che non solo facevano rumore ma pungevano come spilli se la stoffa era bucata da qualche elemento appuntito che non voleva rassegnarsi ad essere schiacciato dal corpo.

Appriezz [3]

L’esposizione – L’appriezz’ – foto tratta da nostro articolo [4]

Alcuni giorni prima del matrimonio, in casa della sposa, avveniva l’appriezz’.
Giungevano a casa le zie accompagnate dalle figlie. Era un vocìo festoso, baci e abbracci… – Cumm’ staie!? – si scambiavano le une con le altre.
Tutto era pulito: il pavimento era stato biancheggiato con la calce come anche le pareti e si era cercato di togliere anche il nero che resisteva imperterrito là sul focolare in muratura o sul forno. In mezzo al tavolo una montagna ’i nucchette (frappe) o ’i zeppule” o un semplice panettone fatto in casa.
– Vulìte ’na’ tazz’ i cafè”
o ’nu’ bicchierin’ i’ rosolio? – chiedeva la padrona di casa alle ospiti.
Ogni tanto portava, con grazia, le mani ai capelli come per aggiustarsi ’u’ tupp’ (la cipolla) dove spiccava un’elegante pettenessa d’avorio. Le ragazze attorniavano l’imminente sposa. Le sentivi confabulare e ogni tanto, dopo essersi guardate intorno, scoppiavano in una risatina maliziosa.

Sul lettone e/o sulle casse era tutto un ricamo. Lenzuola, federe, tovaglie e tovaglioli, camicie da notte, anche coordinate con altri indumenti intimi. Si contavano i pezzi e si mostrava soprattutto quello che sarebbe servito per la prima notte di nozze.
Per distinguere i propri pezzi da quelli delle eventuali sorelle, la fanciulla ricamava su di essi una propria sigla ed inoltre su alcune federe ognuna ideava qualche frase adatta allo scopo.
Una festa orgogliosa in cui insieme alla qualità, si apprezzava anche l’originalità ed il lavoro profuso.

LOCANDINA [5]

 

Nota
All’importante tradizione de l’Appriezz’, Ponzaracconta ha dedicato oltre trenta articoli: digitare – Appriezz’ – Nel riquadro CERCA NEL SITO; e anche una Mostra tenutasi in 9 giugno 2013 presso la Chiesa di S. Giuseppe a Santa Maria

 

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