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Confessioni di un refolo

di Francesco  De Luca

 

L’andare è la mia condizione esistenziale. Posso allentare il cammino, continuare a girarmi intorno ma non  fermarmi. Sono un refolo d’aria e il trascorrere è nel mio destino come nella mia aspirazione.

L’isola, poi, non fornisce ristagni, aperta com’ è ad ogni flusso, anche al più leggero.

Di solito è da est che si muove. Il sole si leva dal mare, pulito e roseo come il velo dell’aurora, e lo spiro lambisce le acque, le increspa quel tanto per sospingerle a percorrere l’interminabile distesa affinché tocchino le coste e ne imbianchino la base.

Mi insaporisco allora di salmastro e colgo della vita la bellezza. Dolce e amara insieme. Come sempre, insieme.

Sull’isola è questa la legge dominante. Chi non ne vede il volto se ne allontana indignato e le inveisce contro. Altri in essa si rintana e ristagna. Crede sia un guscio, chiuso e refrattario, autosufficiente.

Non è così, sbagliano entrambi. L’andare è la salvezza per ogni essere che viva. E il prezzo da pagare  quasi sempre gronda dolore.

Io ne ho visti tanti di giovani isolani, costretti ad uscire dall’alveo dorato dello loro casa sull’isola per ritrovarsi a dover vincere le novità sconosciute del continente. Fronteggiarle con la lacerazione dolente nell’ animo.

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Giuseppina, non vista, piangeva i suoi dieci anni perché oltre il mare, in collegio, era priva della burbera sicurezza del padre e della fuggevole carezza della mamma. E Pasqualino  – non ho dimenticato  – prima di partire andava più e più volte in bagno.  Gli prendeva ‘a pisciarella, diceva, e la madre lo seguiva con lo sguardo senza parlare, e lui ne apprezzava la dolcezza .

Oggi sono persone mature, genitori, e il loro andare nella vita è puntellato dalla professione, dalle sicurezze economiche, dalla solidità affettiva della famiglia. E’ un andare senza patemi eppure si frange questa loro solidità scendendo  ‘i  grariate, dopo aver chiuso la casa che riapriranno fra  mesi.

Vanno, e i gesti sono anchilosati, lo sguardo fermo, il cuore duro, racchiuso in un pugno la cui stretta fa male.

Qualcuno ipotizza per i Ponzesi il mal di Ponza. Non ho conoscenze in merito e non mi pronuncio. Assisto però anche al chiuso morbo che rode chi sull’isola si sente come un naufrago senza zattera. Disperato perché l’orizzonte, già racchiuso dal mare che tutto circonda, si restringe col passare del tempo.

E’ lui che smangia i contorni della propria identità. I familiari lasciano il mondo, gli amici si disperdono, gli usi si annacquano e pare che la fisionomia dell’isola diventi irriconoscibile.

Da quanti anni mi muovo per questi spazi, fra Piana d’ Incenso e la Guardia, fra le Formiche e  ‘i  scuglietelle; ho visto Calacaparra diventare un borgo ameno, e il tifo echeggiare nel cavo del campo di calcio, e per i tuffi gioire Cala Fonte. Tutto come ieri. Sembra.

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Una inquietudine lacera le esistenze dei Ponzesi, smaniosi e insicuri, voraci e maldestri. Della loro vita vorrebbero fare altro, ma ancora non sanno cosa.

Il tempo e il suo andare daranno risoluzione all’ambizione. In quel vento anch’io.