Ambiente e Natura

Ponzese-forestiera o frastera-punzese?

di Rosanna ConteRoots

 

I primi giorni di gennaio, ultimi delle vacanze natalizie, sono sempre stati, per me, carichi di malinconia perché c’era la partenza da Ponza.

Puntualmente sopraggiungeva insieme ad una preoccupazione: svolgere tutti i compiti che i diversi professori con abbondanza avevano assegnato temendo che potessimo dimenticare quanto appreso nei primi tre mesi di lezione.

Li rimandavo giorno dopo giorno dall’arrivo a Ponza e, proprio agli sgoccioli delle vacanze, il senso di responsabilità mi spingeva a prendere in mano il diario su cui erano meticolosamente segnati.
Così rubavo tempo al sonno al mattino e alla sera pur di non perdere nemmeno un minuto di quello che mi restava da trascorrere con gli amici.

Nonostante quest’ansia, la malinconia la faceva da padrona.

Entro tre… due… un giorno sarei partita da Ponza e non avrei potuto più gironzolare fra le sue stradine – tutte molto care e preziose –  né avrei potuto costeggiare il mare invernale lungo la battigia di Chiaia di Luna (se la bella giornata l’avesse consentito) né avrei sentito il tagliente grecale fischiare mentre al caldo, con gli amici, si giocava a carte o si discuteva dei nostri progetti per il futuro.

E’ vero! Per chi era costretto a partire, c’era il forte desiderio che si scatenasse una tempesta per restare qualche giorno in più.

Quante volte, seduta sulle scale che dalla cucina di mia nonna portavano al piano superiore, mentre mi crogiolavo al caldo leggendo qualche fumetto, tutte le valigie già pronte, sentivo il fischio dell’Isola di Ponza o del Falerno che, purtroppo, era arrivato! Cadevano, così, tutte le mie speranze.

L’indomani, a seconda del giorno della settimana, prendevo alle quattro e trenta il traghetto per Formia o alle sette quello per Procida.

In ogni caso, al mattino il nonno ci accompagnava – me, mio fratello e mia madre – alla punta del molo portando uno dei pesci che aveva pescato: un merluzzo o una musdea di grande stazza. All’ultimo momento rassicurava mia madre sulle condizioni del mare, dicendo che il vento era in poppa o che avremmo fatto bene a sistemarci nel salone inferiore per ricevere attutiti i colpi di mare. Ricordo la sua pelle ruvida di pescatore quando mi salutava prima del distacco, fredda come l’aria notturna o mattutina di gennaio.

A bordo, c’erano gli amici che andavano a studiare fuori e, se da un lato ciò poteva consolarmi secondo il detto Mal comune, mezzo gaudio, dall’altro il mio sollievo durava poco: loro sarebbero tornati alla prima occasione di ponte o in qualche fine settimana, io avrei dovuto aspettare le feste pasquali.

I miei occhi non si staccavano dalla costa dell’isola – abitudine che è durata decenni, fin quando le vicende della vita hanno richiesto che la mia attenzione fosse dirottata all’interno della nave – e l’abbandonavano solo quando la lontananza, la foschia, il maltempo non ne facevano perdere i contorni.

Eppure, a differenza degli altri, io tornavo su un’altra isola! Tornavo a casa mia!

Ho ancora nelle narici il profumo degli spaghetti con olive e capperi che mia madre si apprestava a preparare ogni volta che tornavamo da Ponza. Per sempre quel profumo saprà di nostalgia e affetto, rimpianto e calore materno.

La nostra casa era piccola, ma calda. Dalla sua finestra vedevo il mare e pensavo che, in fin dei conti, era la strada per cui la nave tornava a Ponza.

Faro all'imboccatura del porto di Procida

Faro all’imboccatura del porto di Procida

E non era questione solo sentimentale.
E’ vero che stavo a casa mia, ma il contesto non lo sentivo mio.

Lì, si parlava un dialetto diverso e spesso venivo presa in giro per l’utilizzo dei termini ponzesi.

Io non me la prendevo perché ero orgogliosa di parlare come mia madre e mio padre, e quando alle superiori incontrai compagne ischitane che usavano un lessico molto simile al mio, mi sentii più affine a loro, conosciute da poco, che non alle procidane con cui ero stata a scuola dalle elementari.

Anche le abitudini erano diverse.
Ad esempio, l’abitudine di biancheggiare non faceva parte delle usanze procidane e quando mia madre biancheggiava le scale esterne destava un po’ di stupore e qualche brontolìo (Mica c’era il colera!?); ma lei continuò a farlo sempre, ribattendo che non c’era bisogno del colera per usare la calce.

Il paesaggio, poi, era ben diverso, anzi quasi contrapposto a quello ponzese.
Mentre Ponza, per la sua morfologia, era aperta al paesaggio marino, Procida, in gran parte piatta, potevi attraversarla tutta rischiando, se non conoscevi le strade, di incontrare il mare solo all’inizio e alla fine del tuo percorso. Le sue strade erano costeggiate da alte mura e la campagna era una distesa di agrumeti, orti e vigne alte come alberi,

Per la verità, feci un po’ fatica ad ammetterlo, ma non potevo farne a meno per onestà intellettuale, la produzione agricola procidana era superiore per qualità a quella ponzese. Le albicocche, le arance, le prugne, erano veramente gustose: non ne ho mai più mangiate di simili. E non parliamo dei carciofi. Faceva eccezione il vino, più leggero, ma l’uva da pasto era veramente buona.

giardino procidano

In realtà, anche se risiedevo lì e vi frequentavo la scuola, la parrocchia, gli amici, insomma anche se lì si svolgeva la mia vita per gran parte dell’anno, io, a Procida, mi sentivo straniera.
Quando dovevo dire la mia data di nascita, la declamavo con tanto di “nata a Ponza”.
Ci restavo male, molto male, quando a Ponza spesso mi indicavano come la “procidana”.

Poi la vita tira i suoi scherzi e presto, molto presto, a 21 anni, sono andata via da quella sorta di anti-Ponza. L’ho voluto io, perché avrei potuto restare lì, ma la mia ansia di mettere le distanze fra le due isole, mi ha spinto a rifiutare l’una per non avere comunque l’altra.

E sono diventata cittadina? Manco per sogno. Per decenni mi son portata l’isola dentro, nonostante frequentassi Napoli da piccolissima. La città era traffico, negozi, caotico andirivieni delle persone ed anche quando ho iniziato a lavorare, lo scambio comunicativo mi vedeva sempre posta in una situazione particolare: stavo momentaneamente lì, perché durante le vacanze di Natale, di Pasqua e in estate, io sarei tornata a Ponza.

Dopo qualche decennio in cui il lavoro mi ha portato a conoscere persone e realtà di varie zone della provincia, da Ischia a Torre del Greco a Pozzuoli, a Monte di Procida, ad Ercolano, ho percepito l’appartenenza al grande mondo partenopeo come matrice sentimentale e culturale del mio io.

Lanternino. Milo Manara

I miei antenati provenivano da Ischia, qualche bisnonno era nato addirittura a Napoli in una zona poco distante da dove abitavo; in qualche stradina del centro storico c’era una cappelletta dedicata a San Silverio (adesso so che c’era per volontà della famiglia di Eduardo Filippo – leggi qui); a Napoli e dintorni c’erano molte famiglie di ponzesi, alcune stavano nel capoluogo partenopeo da fine ‘800 e mantenevano ancora legami con l’isola.

Insomma, mentre il mondo correva verso la globalizzazione, il mio io ha fatto spazio ad un suo territorio più ampio, più capiente, di cui, però, Ponza ha costituito pur sempre il centro intorno a cui tutto ha ruotato.

Spesso, spinta dall’atteggiamento con cui il ponzese guarda al ponzese-forestiero, ritenendolo estraneo, mi son chiesta se il mio fosse un affetto in cui solo crogiolarmi o se avesse solide radici nel mio senso di appartenenza.
Dilemma non da poco, visto che la superficialità è l’opposto della profondità dell’autentico.

Allora, se era autenico, a quali caratteri individuali e sociali originari facevo riferimento?

In un’isola così cambiata e stravolta dall’economia di rapina degli ultimi decenni, poteva riuscire difficile ritrovarli, ma alcuni certamente erano stampati nelle figure della mia famiglia e nella storia dell’isola.
L’operosità caparbia a trarre prodotti da una terra un po’ avara, il rispetto per la fatica, l’ardimento a sfidare il mare su gozzi e varcelle per pescare, la disponibilità ad affrontare i rischi connessi all’inizio di una nuova attività, o anche andare via, sono stati caratteri costanti come anche Enzo Di Giovanni ha abilmente rilevato nella sua Epicrisi domenicale.

ghiaccio2bollente

Certamente i ponzesi sono state persone che sapevano che la vita non avrebbe fatto sconti a nessuno ed hanno accentuato un individualismo che cozza con il concetto di interesse della comunità.

Ancora oggi restiamo immersi nel pantano delle dispute dettate da interessi o emergenze piccole e grandi, personali e collettive, rischiando di fermarci ad una progettualità del qui ed ora, del tutto e subito, cosa che ha sempre prodotto esiti limitati nel tempo e favorevoli solo a piccolissimi numeri di persone.

Ecco, occorre uno sguardo lungo e flessibile, che partendo dall’isola si sposti in alto per cogliere quanto più possibile di nuovo, di diverso, di utile per la crescita collettiva, e torni giù sul nostro scoglio per concretizzarsi in progetti mirati al bene comune.

E forse la costola isolana distaccata e dispersa per il mondo potrebbe contribuire facendo la sua parte.

Ponza-porto

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