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Uno scrigno di rossi rubini
Da piccola ero magrolina e non avevo molto appetito. Durante l’estate mia madre mi mandava dai nonni in campagna perché diceva che l’aria di campagna mi avrebbe fatto venire fame. Vicino la casa dei miei nonni abitavano anche i nonni di una mia amichetta. Anche lei trascorreva le vacanze in campagna. Il giorno ci divertivamo insieme a fare tanti giochi. Quello che più ci divertiva era il gioco del mercato. Usavamo raccogliere erbette, sassolini di varie dimensioni, ramoscelli, terra; preparavamo una specie di bancone sulla panca di legno e poi facevamo una compra-vendita a turno… Quando arrivava la sera, dovevamo mettere tutto in ordine e la mia amichetta se ne tornava a casa. Era quella un’ora in cui mi scendeva addosso una malinconia che mi faceva venire le lacrime. Così, mentre mia nonna preparava la cena, io correvo dietro la casetta e sotto un alberello di melograno da dove si vedeva la strada, piangevo silenziosamente perché sentivo la nostalgia di casa e di mia madre. Di solito, quei pianti liberatori mi calmavano e con gli occhi e il naso rosso, andavo a tavola quando la nonna mi chiamava forte. Mio nonno mi guardava teneramente e mi dava un buffetto sulla guancia e poi cercava di distrarmi dalla nostalgia suggerendomi un’idea per il gioco del mercato. Mi ricordo che una volta mi parlò delle diverse varietà di fagioli e così il giorno dopo, il bancone si arricchì anche di sassolini bianchi, marrone, neri e rossi… L’appuntamento sotto il melograno era puntuale e al calar della sera ero sempre lì a sperare che mio padre venisse a prendermi con la macchina. E una sera in cui i pianti silenziosi si tramutarono in singhiozzi, mio padre arrivò sul serio e mi riportò a casa. Il melograno è cresciuto e molte cose sono cambiate in campagna. Non ho fatto togliere quell’alberello e ancora oggi mi regala i suoi pomi e conserva la memoria di tempi andati. Sempre mi sovviene la poesia del Carducci, quando penso al mio melograno: “L’albero a cui tendevi la pargoletta mano, E’ simbolo di prosperità e fortuna in diversi paesi del mondo. E’ tradizione greca rompere un melograno durante i matrimoni, a Capodanno e quando si compra una nuova casa (il melograno è il primo dono che anche oggi gli ospiti portano) perché simbolo di abbondanza, fertilità e fortuna. Nell’antica Grecia i sacerdoti erano incoronati con rami di melograno ma era loro vietato di mangiarne i frutti. Per gli Ebrei è simbolo di produttività ma anche di unità del popolo come i grani che sono stretti tra loro. In Persia è simbolo di discendenza numerosa. A tal proposito mi sovvengono alcuni versi di una poesia di Giovanni Formaggio XX sec. che dice: “…mio padre seduto con noi A Roma si usavano i rami dell’albero di melograno per l’acconciatura delle spose. In Egitto era nota come pianta medicinale e i frutti erano messi anche all’interno dei sepolcri. La città spagnola di Granada ha l’immagine del melograno raffigurato nel suo stemma mentre i Babilonesi ne masticavano i grani perché sembrava che il succo li rendesse invincibili. Utilizzato nel culto di Zoroastro che ha l’immagine del sole; in Persia è simbolo di discendenza numerosa. Nella poesia galante il melograno evoca il desiderio: Si usa nella cucina indiana sia fresco sia essiccato, come spezia e come salsa ed anche per combattere la sterilità. In Turchia si marina la carne con il suo succo che si usa anche come rinvigorente per persone debilitate. Ovviamente sono tante le proprietà terapeutiche del melograno sia come succo sia come tisana e ne è utilizzata anche la buccia. Mia madre dice che la buccia fatta bollire e messa su una parte infiammata, attutisce l’infiammazione. Dice anche che il succo fa bene alla circolazione e al cuore. San Giovanni, nella mistica cristiana, considera i semi simbolo delle perfezioni divine mentre la rotondità, è espressione dell’eternità divina e il succo è godimento dell’anima. Nel Cantico dei Cantici si legge:
A Capodanno ho mangiato anche i dodici chicchi d’uva propiziatrici di fortuna così come lo sono le lenticchie per la ricchezza. Dei grani del melograno me ne son toccati pochi ma per fortuna che ne ho fatto incetta durante l’autunno e fino all’inizio dell’inverno. Non so capire se, l’averne mangiati molti, abbia attutito in parte le inquietudini del cuore… L’ultimo melograno lo mangerò il giorno della Befana ed è in bella mostra insieme alle arance, limoni, mandarini e kiwi nel portafrutta sul tavolo in cucina. Cerco sempre di non farlo cadere quando tolgo gli altri frutti dal piatto. Mi dispiacerebbe aprirlo e trovare i grani schiacciati. Certo è che ne vado ghiotta e altrettanto penso ne andasse ghiotto anche il grande Garcia Lorca che nella sua “Ode alla melagrana” ne fa mille similitudini straordinarie: cielo cristallino, seno vecchio di pergamena, arnia minuscola col favo insanguinato, tesoro dello gnomo del prato, un cuore che batte sul seminato, arca di pietre preziose, sangue del cielo del vento e del mare, preistoria, sorella carnale di Venere, luce della vita e femmina dei frutti… L’ultima volta che sono andata in campagna è stata l’estate scorsa e sotto il mio melograno ho composto una breve poesia che sa un po’ d’infanzia… Le amiche Quattro amichette bianche si son date Le vedo che parlottano tra loro E girano felici intorno alla mia testa Anche quel giorno aspettavo qualcuno per andare su al paese da mia madre e anche quel giorno ero sotto l’albero di melograno. Quel melograno che ascoltava il mio pianto da bambina e che questa volta ha ispirato e ascoltato un mio canto.
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