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Danza con me

di Francesco De Luca
Il vento e il mare [1]

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Frullata la mente dal turbinìo del vento, ossessivo notte e giorno, e poi ancora giorno e notte, è travolto dalla danza. Non riesce ad opporsi al ritmo cadenzato delle finestre rumoreggianti per i vetri tintinnanti, anche il palo della fune stesa si dondola alle bordate del ponente. Con un ritmo insicuro ma potente. Impossibile non seguirlo. Danzano i filari delle viti, i fili delle antenne, i rami dell’oleandro, e in casa si associano i serramenti.

Nunzio trattiene il respiro per misurare l’intervallo delle folate. “Eccola… eccola qui… maledetta… lo aveva anticipato il meteo ed ora sei qui “. Non riesce a concentrarsi sul periodo di pausa, e la ventata, acre e irata, lo circuisce di nuovo e lo getta nel ballo. “Viene da Giancos… sì”. Ma la familiarità del luogo non addolcisce la sua scarica. Cattiva contro i muri a cui toglie la pelle di calce, e le piante rampicanti le denuda delle foglie con ghigno di satiro. Strappa loro ogni copertura e ne mostra il corpo nudo.

L’uomo è preda ormai del vortice dell’incoscienza, tutta la casa sembra lasciarsi andare alla malìa del vento. Si rincantuccia allora sul divano, attento soltanto alla frequenza delle rozze raffiche. La porta trema, le finestre sussultano e il cuore sobbalza. E’ una danza selvaggia quella che si tiene.

Un vecchio dipinto di san Silverio attira lo sguardo. Rivede suo padre che gli accendeva il lumino: “Papà era più incline a trovare nell’ossequio ai Santi il coraggio. Mamma no… mamma assisteva senza esitare”.
Rivede la scena, Nunzio, e riesuma i gesti, e l’animo, suo malgrado, danza come il vento impone.
“La fioca fiammella dava speranza a papà che andava al vetro della finestra da cui uno spicchio di mare rendeva evidente la turbolenza delle onde. Poveri marinai sull’acqua salata”, diceva dolente .
Cercava, il padre, nella condivisione della paura, un rifugio. Lui no, Nunzio vuole contrastare il volteggio a cui lo costringe la sfuriata del ponente. Non è più quel ragazzino, piccolo e gracile, gli occhi attenti, il naso a punta.

La nave “Isola di Ponza” dava il suo spettacolo nella sera che scendeva, nera di pioggia, in un mare scuro di rabbia. Che danza ! Ci si guardava in volto, ciascuno negli occhi del vicino per rubarne morsi di coraggio. Si era in tre o quattro, studenti in continente e ora protesi a casa. La poltrona, strumento di tortura, e il suono delle bottiglie del bar come vetri infranti ad ogni sbandata della nave. Il silenzio degli uomini stringeva i cuori. Anche quelli del pescatore smargiasso, in piedi a gambe aperte piantato, che sputava in faccia al vento il fumo della sua sigaretta.

Uagliù, non ci pensate che siamo quasi arrivati”. Vincenzo, il nostromo, incitava per consolarci e noi, nella vigile angoscia, davamo segno di credergli.

La danza lo ha travolto e Nunzio si muove in casa come allucinato. Va in cucina e dal vetro guarda il paese, le case intorno, le strade. Dovunque il ballo del ponente si rende evidente. Sussultano i rami, e nei viottoli le buste di plastica volteggiano, qualcuna si appende malamente, le onde nelle acque del porto vanno disordinatamente all’attacco.

Alla danza imperiosa resiste un gatto, raggomitolato lì, in un angolo coperto. Lo osserva bene, non è il suo, quello che gironzola intorno casa per gli avanzi. Chi sa dove si è rifugiato.

Con un balzo di generosità esce nella via per chiamarlo. Macché, nessun segno. Ode però lo sbattere di qualcosa. E’ la porta del ripostiglio delle bombole del gas. Va a chiuderla, se no domani è divelta. Questa danza va assecondata non ostacolata. Chi lo fa avrà danni.

Le raffiche lusingano ma lui non vuole cedere, neanche alle blandizie dei mugolii delle serrande si concede, vuole opporsi alla fiacchezza dell’animo, e accende la televisione. Essa sì che lo porterà lontano dalla suadente danza. Colori, musica, movimento, lustrore… chi penserà più alla stretta mordace della furia del vento ? La televisione toglierà all’isola finanche il suo isolamento fisico. Frantumerà il ballo

Riprende possesso di sé, Nunzio ritorna al presente, e si aliena nelle signorine scosciate, si imbambola dietro alle battute insipide dei presentatori. Quale realtà è quella? Non colloquia col suo animo, parla ma non gli dice niente. Il rumore del vento padrone dell’isola ha voce che incute sgomento. Ma lui all’inquietudine vuole contrapporre la baldanza, alla fiacchezza la risoluzione.

La confusione lo avvinghia. Si oppongono due stati d’animo. C’è l’uomo che vuole assaporare il suo presente e l’uomo che si spoglia della sua coscienza.

Nunzio annulla l’audio, lascia che le immagini rutilanti si accartoccino in una inconcludente giravolta, e sospende l’ansia, se ne allontana. Ritrova accanto la figura della madre. “Viento ’a fore – viento ’i dulore – alluntanete ’a chesta via – nun tucca’ ’a famiglia mia. Ci teneva intorno a sé, dura e sicura come una roccia”.
Nulla protegge più della madre. Ma la figura nel ricordo brilla un attimo poi si stempera, il volto bello e sereno della donna svanisce piano. Nunzio si scopre nella stanza da solo, una lacrima secca agli occhi.

La danza del mondo scema. L’uomo ritrova il suo corpo, i suoi vestiti, il suo da

fare. Nelle vicende della vita ha navigato e la sua corsa l’ha fatta con dignità. Ma in una vita se ne intrecciano tante altre. Alcune desiderate altre subite. Con sentimenti e impedimenti, sogni e divieti. E con una ineliminabile, intransigente necessità.
C’è l’acqua da pagare, la visita oculistica, il regalo da fare. Un’altra danza! Un balletto abbracciati alla quotidianità!

Meglio lasciarsi andare all’invito del ponente che squassa, alle raffiche che vogliono sospingere più in là. Più in là dall’ordinario invecchiare senza speranza.
C’è uno spazio dove l’animo fluttua a piacimento dietro le luminescenze del sentimento, inseguendo emozioni appaganti.

“Danza con me, vento, pigliami nel tuo amplesso e dammi il sollievo dell’immaginario”.
L’uomo si lascia ai soffi e ai sobbalzi delle ventate, abbandona i pensieri a contrasto, cede ogni consapevolezza. “Danza con me chè danzerò con te”.