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Il dialetto, dove meno te l’aspetti

di Luisa Guarino
Libro di Luca Bianchini [1]

 

Nel suo ultimo libro “Dimmi che credi al destino” Luca Bianchini, giovane scrittore di Torino, trae spunto da una vicenda reale, la paventata chiusura della libreria Italian Bookshop gestita a Londra da Ornella Tarantola, per realizzare un nuovo romanzo, dopo “Io che amo solo te” che è diventato un successo anche al cinema, e il suo seguito, “La cena di Natale”.
Una cosa che mi ha incuriosito in questa più recente opera di Bianchini (maggio 2015) è la presenza di alcune parole in dialetto napoletano, giustificate da un personaggio che è appunto di Napoli, Diego (proprio come Maradona): ragioniere in patria, diventa barbiere a Londra, per trasformarsi poi in commesso proprio dell’Italian Bookshop di Ornella, il nome della quale resta immutato anche nella finzione letteraria.

Locandina film [2]

Così colgo l’occasione per offrire un ulteriore contributo alla discussione in atto sulle pagine del nostro sito. A dire il vero la prima parola in cui mi sono imbattuta mi ha fatto sobbalzare: “l’appucuntria”: ho sempre saputo, i ‘puristi’ mi correggano se sbaglio, che il termine esatto e’ “’a pecundria”, dove ’a e’ l’articolo e pecundria la parola (derivata dall’italiano ‘ipocondria’). Perfetta però mi sembra la definizione che l’autore mette in bocca al suo personaggio, “un misto di noia, mal d’amore, nostalgia, insoddisfazione e solitudine”: qui mi sembra che ci siamo.

Nel prosieguo del romanzo, Bianchini fa pronunciare altre brevi espressioni in dialetto napoletano al suo personaggio. Ed ecco allora in ordine sparso “Aggio capit’che figur’ e merd’fa abbastanza schif’a facc’ ro cazz’… ”.
Appare chiara a questo punto la propensione dello scrittore per le parole tronche, con l’apostrofo che indica la caduta della vocale, insomma per quella grafia più vicina al dialetto parlato. Personalmente, come ho già avuto modo di dire, preferisco le parole che terminano con vocali che rendono la lettura più agevole, pur sapendo a priori che esse poi restano mute.

Ma prendo atto della scelta di Bianchini, che in questo modo tra l’altro mostra di condividere la posizione della rubrica settimanale del nostro sito, quella di Sang’ ’i Retunne.
Sono tollerante, aperta al dialogo e al confronto: e questa, in tempi di ‘integralismo’, come giustamente dice Vincenzo, applicato anche a temi apparentemente innocui come quello del dialetto, mi sembra l’unica strada percorribile.
Ben venga dunque il dialetto dove meno te l’aspetti: se perfino uno scrittore torinese sente il bisogno di usarlo, significa che esso ha sempre la sua forza, e che nessuno è depositario di alcunché.

 

Luisa ha fatto anche un altro accenno in passato, ad uno dei libri citati di Luca Bianchini: leggi qui [3] (NdR)