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E andavamo tutti alla Caletta (7)

di Dante Taddia
Caletta d'antan [1]

 

Anche questo racconto è tratto dalla raccolta di Dante Taddia “E andavamo tutti alla Caletta“: anzi esso è dedicato proprio alla protagonista della raccolta stessa, la spiaggia della Caletta, riferimento indiscusso degli anni ’60, almeno per chi risiedeva nella zona Porto-Parata-Madonna.
La ‘formazione’ di ragazzi e adolescenti prevedeva inoltre, in ordine successivo, le tappe dei tuffi nella Grotta di Pilato, dal finestrone esterno della stessa e infine dal cimitero: di essi parleremo prossimamente.

 

“A mare”, ci si va cercando una caletta.
E una delle tante calette che Ponza ci presenta è nel centro dell’abitato, dietro al porto… ’arète ’a scugliera” – come definita in espressione locale.
Le altre sono calette, piccole cale.
Questa è “la Caletta”.
“La caletta” è un’insenatura impostata su riva sabbiosa a ridosso del muro di cinta del porto borbonico. E’ separata fisicamente dal resto del mare dalla scogliera con la quale comunica uno scambio di acqua attraverso gli spazi degli scogli: data la scarsa profondità, il sole la riscalda notevolmente.

La Caletta, ciò che nel ricordo infantile di diverse generazioni ha rappresentato l’ubi consistam delle varie età non si discute, la Caletta è un’istituzione, la Caletta è Ponza e per un ponzese “doc” come forse si abusa nel dire oggi, è la vera madre, una volta fuori dell’utero materno. Maestra di vita di ognuno.

Gennaro Peppe e altri amici della nostra generazione alla Caletta [2]

Gennaro, Peppe e altri amici della nostra generazione alla Caletta (vedi nel commento di Gennaro Di Fazio, l’identificazione di tutti i componenti della foto)

La Caletta è il primo bagno in acqua di mare a pochi mesi, le tappe del nuoto fino ai cinque – sei anni, le mete da raggiungere negli scogli sparsi della scogliera per quelli successivi. Sono tappe, confini da raggiungere e superare, ma tutto gradatamente:
’U scoglio d’a criatura’U scoglio d’u ’uaglione – profondità dell’acqua circa 60 centimetri e dislivello poco più di dieci centimetri,

Lo scoglio du’ giovane, profondità dell’acqua poco più del metro e dislivello oltre i 60 centimetri. Da questi scogli si spiccano i primi salti in acqua, a bbomba, a cannéla, a sparapanza, secondo l’età si tentano i primi tuffi.
– Ohi ma’, ’u vedite, vache ’i capa… – e con uno stile non molto ortodosso ci si tuffava, quasi di testa anche se le ginocchia erano già state raccolte da fermi fin quasi alle orecchie, e mandando giù per prima la testa ci si lasciava solo cadere in acqua.

Dopo quei due piccoli scogli c’era un’altra tappa, lo scoglio giallo… Quello sì che era il vero banco di prova. Anzi di ‘scoglio giallo’ ce n’erano due, uno più basso e l’altro più alto. Affacciavano fuori della Caletta, fuori della scogliera, ed erano le colonne d’Ercole da superare, possiamo dire però le prime colonne d’Ercole, perché per i giovani ponzesi se ne sono sempre poste ad ogni tappa della loro vita e non solo per il mare. Tutto era fatto per gradi e quando la vita seguiva questi ritmi l’esistenza era davvero più umana.

Il primo scoglio giallo era la tappa per l’adolescente che dopo tutti gli esercizi fatti nel ventre caldo e rassicurante della Caletta si spingeva all’esplorazione del mondo al di fuori di essa. Era il mare aperto, era l’acqua blu. Era l’acqua profonda di cui si intravedeva il fondo pieno di alghe (da notare che in realtà la scogliera è un frangiflutti costruito all’interno del grande bacino, l’antica caldera in cui è impostato il porto di Ponza e fronteggia lo scoglio della Ravia, delimitando così una specie di canale in cui transitano le barche per entrare nel porto). Quindi tanto aperto non è proprio. Ma già la differenza di temperatura e il colore dell’acqua, nella fervida immaginazione di un adolescente, fanno dello specchio sottostante lo scoglio giallo un mare impegnativo.

Lo scoglio giallo è il primo tuffo che si fa in acqua più profonda, cui solo chi ha sperimentato le due tappe precedenti può accedere.
L’acqua è freddina, così diversa da quella da brodo primordiale dell’interno della Caletta e provoca nell’immergersi uno shock che tempra lo spirito e il corpo. E’ quasi un nascere ogni volta che si balza in acqua, si esce dal caldo ventre materno dell’acqua della Caletta per incontrare il freddo esterno… e bruscamente.

Un salto, lo stile non proprio perfetto si ripete… si ripete ancora ma poi si affina pian piano e l’acqua blu ti accoglie amica, quel mare ti abbraccia quasi a compensare la tua attesa, ti mostra il suo aspetto più accattivante.
E quando si riemerge si guarda da sotto il dislivello superato con compiacimento per il risultato raggiunto ma allo stesso tempo si osserva con ammirazione, ma senza troppo darlo a vedere, il ragazzo un poco più grande, cui hanno fatto già buona mostra i primi baffetti e la peluria fra le gambe, che raccogliendosi quasi in posizione fetale si slancia verso l’alto e ha compiuto il balzo dal secondo scoglio giallo, quello più alto.

È ammirazione e senso di emulazione. – Aggia pruva’… ma i’ tenghe appaura”.
Se non sei pronto per quel balzo, rinunci, ma a malincuore. E’ quasi una prova di iniziazione.

E quando nessuno ti vede, quando nessuno si tuffa, provi a salire dallo scoglio giallo più basso, superi una specie di sella quasi incollato alla parete come un geco, avanzando pochi centimetri alla volta. Quando, più grandi ed esperti, si supererà questa difficoltà, per ora estrema, solo allungando il passo dal piccolo al grande scoglio giallo e viceversa per dare prova della sicurezza raggiunta, un sorriso ironico farà da commento alle paure passate.
– Sì, non c’è nessuno in questo momento… posso provare, debbo provare… – ti vai ripetendo per convincerti. Con lo sguardo misuri l’altezza dal mare sottostante che con le sue increspature sembra chiamarti e invitarti rassicurante, ripassi mentalmente quanto visto fare dai più grandicelli fino a quando ti senti pronto per il balzo… e vai… senza troppo stile ma vai, ti metti in posizione, guardi: no, non c’è nessuno che osserva, che critica, indugi ancora un po’: ora vado, vado… ma no… ho paura…
– Aggie fatte ’na trézza ’i vierme… Non vado… ma debbo… l’aggia fa’.
Fino a quando qualcuno dei più grandi arrivato inaspettatamente alle spalle ti gela:
– ’Uagliò, amm’a passa’ ’a nuttata cca, o te mine a’mmare?

È questo lo smacco più grosso. Essere chiamato ’uagliò e mostrare di avere paura. Non vuoi. Però fare la figura dell’imberbe neppure e… ecco, ti butti… o è il più grande che ti ha spinto? Però il salto è fatto. – ’Stu ddi’e strunze… m’hai menate a mare”.

– Ie? …zo dici? – E giù le sonore risate dei più grandi, che ricalcano con i loro commenti di superiorità quelle emozioni che pochissimo tempo prima hanno provato loro, magari forse al massimo la settimana prima. Ti danno una pacca cameratesca sulla spalla, quasi a sancire l’appartenenza ormai ai più grandi e una sommozzata amichevole (ti spingono la testa sott’acqua all’improvviso) per dimostrare cameratismo e anzianità, e paternalisticamente subito dopo, eccoli a istruirti.

– Tu t’he a te mena’ dall’alto comme si tenesse a fa’ nu zompe e poi… ppoi te mine a mare comme ‘na fera” – È tutto.
È la fine di un’età e l’inizio di un’altra. Ormai si ascoltano sempre meno i richiami parentali: – Tatò, vid’i sta’ accuorte, ’i mmane pe’ pprima, m’arriccumanne… e poi ’i capa – Silve’, vide ’u piccerille ca te vene appriesse. Nun ’u ffa sagli’ ’a coppa.

Ma è un giro, una meravigliosa ruota in cui tutti vogliono essere presi e coinvolti, partecipare, da attori.
È un atto di cui andare fieri.
– ’U diche a pàtete! – è la minaccia della madre – ’u’ssai ch’ha fatte fìgliete ’arète ’a Caletta? È gghiute ’u scoglie gialle, ma ’u cchiu pitte – aggiunge per rassicurarlo – e… s’é menate a mmare”.


– Figlie ’e jatte acchiappe surice…
(che poi vuol dire tale il padre tale il figlio, o che le querce non danno arance).
– Ch’he ditte?
– Noo, niente… È ‘o vero Silve’? È ‘o vere chelle ch’a ditte mammà?
– Nnoo. No. Ssì… è ‘o vero.

E lì partiva la classica botta ’n capa, uno scapaccione – Nunn’ u ffa’ cchiù, he capite, ca mammeta se piglia appaura”. E poi sottovoce compiacendosi e capendo che quella tappa è arrivata per il suo ragazzo ormai: – Bravo ’uaglio’. Accuorte… quanne te mene d’u cchiù auto”. Il più alto. Il secondo scoglio giallo, lo scoglio giallo più alto.

Un’altra tappa della vita. Le altre colonne d’Ercole da superare, ne restavano ancora. Tre. Ancora tre tappe, e il ciclo di preparazione per diventare un vero uomo, un uomo ponzese si sarebbe compiuto.
E le femmine ? Beh per le femmine –’i femmene – il discorso era quasi lo stesso ma dipendeva dal carattere di ognuna e dalla presenza o meno di fratelli più grandi.
Se ce ne erano infatti, le due tappe iniziali erano comuni per tutti i bambini senza distinzione di sesso. Ma era allo scoglio giallo che si operava la selezione. Per chi aveva il fratello più grande era abbastanza normale fare lo stesso iter anche se limitato nel tempo e nello spazio.
Per non intralciare le gesta del fratello: – Chella scassambrella ’i sòrema… Pur’essa tene voglia ’i se mena’ a mmare… Ie l’a accidesse quanne se mette a miezze a ’stì ccose ’e uommene… – Ma subito dopo è lì a darle consigli: – Assu’, quanno te mine a mare tiene ’i ccosce chiuse sennò… trase acqua dinte… A seggia, mittete a seggia e vvajie”.
Il tonfo nell’acqua: ’U vide che è ’na’ fesseria? …E bbrava ’a pullanchella! – diceva magari qualcuno un poco più grande che sperava di conquistare così la sua simpatia – Sì proprio brava!
Poche parole ma che magari servivano per attaccare discorso e procurarsi un appuntamento e sperare che ci scappasse poi anche una passeggiatina. Ma subito di rimando, c’era la voce fraterna del fratello:
’A pullanchella, ’a bbrava ’uagliona… è sòrema. E ttu statte accuorte… ja.

Caletta ora. Scogliera e rada [3]

‘La Caletta’ com’è adesso, ormai da qualche anno. Lo ‘scoglio giallo’ di cui si fa menzione nell’articolo è visibile verso la destra e in basso nella foto, vicino allo scoglio piatto: ci si tuffava in  direzione della punta della scogliera