A’ nonna Tummutella piaceva molto il sangue del bovino. Diceva: “ E’ sapurìt’: è comm’ ’u fegat’”. Un giorno mi chiese: – Nipo’ m’u fai ’nu’ piacére? Dimane (non ricordo quale giorno, ma sempre infrasettimanale) accìdene ’a vaccina. Me vaie a piglia’ ’nu poch’i sang’? – Acconsentii. Mi diede un contenitore di latta come quello dove usava riporre il latte munto dalla pecora. Felice di fare una nuova esperienza, solerte mi avviai al macello.
Giunto davanti alla porta di legno non bussai. Stetti lì fermo in attesa che venisse qualcuno ad aprire. Sentivo voci provenire dal basso e pensai che fosse gente intenta a fare qualche lavoro. Dopo un po’ di tempo sentii dei passi e una persona cu’ ’nu mandasìne grezzo che sembrava gomma, spuorch’i sang’ sbucò dal basso. Appena mi vide mi chiese: – ’Uaglio’ che vuo’? – Quando gli riferii ciò che cercavo mi guardò stupito e aggiunse: – E’ tarde, vien’ n’ata vota’. Mogio mogio, tornai a casa e, per la vergogna, non ebbi il coraggio di andare da nonna.
La volta successiva, però, immediatamente bussai. Una persona mi venne ad aprire e così dovetti assistere al sacrificio. La bestia stava legata con due corde, tranquilla, ignara di ciò che le stava per accadere. Rapidamente una persona si avvicinò, le poggiò, svelto svelto, sulla fronte, in mezzo agli occhi uno strumento che aveva la forma di una pistola e quella stramazzò a terra come se si fosse addormentata all’improvviso. Immediatamente le fecero uscire il sangue dalla gola e lo versarono, schiumoso, nel contenitore di nonna, poi letteralmente mi sospinsero fuori, mentre l’acqua puliva il pavimento del locale. Trionfante corsi ai ‘Conti’ e nonna lo cucinò e me ne porse un pezzo. Rifiutai con ribrezzo.
Non rifiutavo, però, gli altri prodotti che nonna allevava: conigli, polli e galline. Chi possedeva un giardino allevava questi animali ed anche, se aveva spazio, uno o più maiali. Alcuni addirittura in casa, pertanto non era raro vedere galline che razzolavano fuori della porta di casa sulla strada o in un cortiletto. All’imbrunire si vedevano donne che, correndo a destra e a manca, in una sorta di acchiapparella, cercavano di far rientrare in casa quelle creature.
Si sentiva: – Sciò, sciò -, oppure: pipìpì – se erano pulcini. Quelle, svolazzando, facevano un grande ma piacevole chiasso; correvano di qua e di là, ma poi rientravano e probabilmente andavano ad appollaiarsi su un bastone perché così usano fare per difendersi dagli attacchi notturni di eventuali predatori.
Anche questa è un’abitudine che si è persa nel tempo.
Alla maggior parte dei polli e delle galline, oggi, non è più consentito né razzolare né saltare: nati e cresciuti in ambienti chiusi, hanno i muscoli atrofizzati!
Alcuni pensano altresì che ciò sia un bene, perché l’allevamento intensivo e l’alimentazione fatta di mangime, insieme alla crescita veloce, rendano la carne dei volatili tenera, adatta al gusto e al palato dell’uomo moderno.
Se infatti queste creature razzolassero lungamente, secondo il loro costume, produrrebbero carne piuttosto soda se non dura non più gradita alle delicate papille gustative. La loro carne pertanto, è così “morbida”, da staccarsi dall’osso senza alcuno sforzo. Anzi, separandosi da sola dall’osso, dall’alto potrebbe scivolare direttamente nella bocca aperta.
Il solito saggio dice che ciò è un bene perché in un mondo che corre all’impazzata e che facilita tutto, anche questa carne si è adeguata. E’ divenuta, infatti, più facile da tagliare con coltello e forchetta, senza sporcarsi le mani, e, di conseguenza, più veloce da deglutire. Aggiunge che il grasso di colore giallo, quella pelle anch’essa troppo gialla, gli farebbe venire la “ pelle d’oca”: assomiglierebbe all’ittero!
– Brrr! – esclama – ribrezzo ed orrore!
Ma tant’è: – “De gustibus…” – dicevano i latini.
I conigli poi, più delicati nella crescita, si tenevano in gabbie. Ad essi veniva data erba. Ma non qualsiasi tipo di erba, soltanto alcuni tipi, e doveva essere asciutta. In caso di malattia la mortalità era molto elevata. Per questo le gabbie dovevano essere costantemente pulite.
Nonna Tummetella li teneva in una grotta sottostante la casa. La paglia doveva essere asciutta soprattutto quando la femmina metteva al mondo numerosi coniglietti che, tremolanti, si attaccavano alle mammelle.
Il maschio stava in una gabbia a parte, battendo, ritmicamente una zampa sulla paglia. Velocissimo nell’accoppiamento; con l’ultimo sforzo, sfinito, cadeva all’indietro e finiva con le zampe all’aria come in una sorta di rinculo. Noi ci crepavamo dalle risate. “Pepone” o “Peppone” era il nome che zio Aniello gli aveva dato. Probabilmente perché era molto grande rispetto a tutti gli altri conigli.
In un’altra grotta vi era il pollaio. Questa era ubicata più in basso rispetto alle altre dove stavano i conigli, la pecora e l’asino. Questa aveva anche uno spazio all’aperto, circondato da una rete metallica.
Lì le galline razzolavano, grattando nel terreno in cerca di vermi o lombrichi. Ad esse veniva dato il ‘granone’ che arrivava in sacchi di iuta da un quintale, ma che veniva venduto anche sfuso. Questi sacchi erano sollevati dal paranco del bastimento. Spesso si rompevano o… erano rotti, lasciando cadere il loro contenuto. Causando così, come sempre avviene, detrimento per alcuni e vantaggio per altri. I primi erano gli acquirenti che vedevano ridotta la quantità di merce ricevuta, i secondi erano quelli che portavano a casa borse o sacchetti ricolmi di quelle merce. Così dicasi per la vrenna (la crusca) per le patate e per tutti gli altri alimenti.
Ma non per la pasta che arrivava in casse di legno, né per l’olio che arrivava in fusti sigillati da 200 litri ed il vino che arrivava in piccoli barili chiamati ‘bordolesi’. Per questo motivo mio padre ci obbligava a pesare, sulla basculante, tutti i sacchi che arrivavano per poi protestare, tramite lettera (non c’era telefono privato, esisteva soltanto una cabina telefonica nella biglietteria della SPAN a’ pont’u muòle) eventualmente, con i suoi rifornitori di Formia o di Napoli. Essi, a loro volta, incolpavano il trasportatore( Sigarètt’).
Così la palla se la rimbalzavano un po’ tutti gli attori, fino a che non si giungeva ad un accordo.
Qualcuno afferma con forza che questo “ scaricabarile” accadeva soltanto in quegli anni tristi! Oggi, sicuramente, tutto ciò non accade più, perché ognuno, in tutti i settori, si assume le proprie responsabilità! Asserisce ancora che, oggi, con i moderni mezzi di comunicazione, sia più facile giungere ad un accordo poiché, nel dialogo istantaneo, ognuno capisce che per “ venirsi incontro” bisogna rinunciare a qualcosa per il bene di tutti! Sarà così?
Anche il granone (granoturco o mais) era di diversa qualità: da quello dai chicchi più grandi, a quello dai chicchi più piccoli. Quando, con la sassola, lo si prendeva dal sacco e lo si versava in un contenitore sollevava una nuvola di polvere che associata a quella della “vrenna” riempiva il locale del negozio di nebbia sottilissima, simile a quella che nella campagna sul far del mattino, nei mesi invernali, si nasconde tra gli alberi e li rende quasi indistinti. L’aria, diafana e frizzantina, induce il cacciatore a scrutare se, in quel pallore, esiste una forma di vita animale.
Il pulviscolo, alimentato anche da quello dei fagioli e dai ceci che, come la “vrenna” , erano trasportati in sacchi più piccoli (da 50 kg), danzava nei raggi solari e insieme ai “profumi” del sapone molle, delle alici salate, delle olive in salamoia, della cunserva rossa e spessa contribuiva a rendere “accogliente” il locale anche se le immancabili mosche si poggiavano dappertutto ma soprattutto sulle zampe dell’asino che, paziente, aspettava, fuori la porta del negozio, che il suo basto fosse caricato. La povera bestia, agitava la coda, faceva tremare le zampe cosparse di piaghe sanguinolenti, ma quelle, imperterrite, prima si allontanavano poi ritornavano alla carica andandosi a poggiare là dove la piaga era più infetta o sul suo bordo. A nulla valeva quello strofinaccio lurido e vecchio che fasciava le sue zampe.
In prossimità delle feste natalizie o durante i mesi invernali, quando ai pescatori, a causa delle tempeste, non era consentito uscire per guadagnare “la pagnotta” e ’a rasch era più frequente e difficile da guarire, a tutti questi “ effluvi” si aggiungeva quello della scella ’i baccalà secco.
Allora non era molto costoso o per meglio dire, essendo salato, poteva essere conservato per molto tempo. Quando se ne tagliava un pezzo, lo si metteva in ammollo per più giorni cambiando continuamente l’acqua. Dava un buon rendimento perché non solo diveniva più” alto”, ma poteva essere ulteriormente suddiviso a sua volta in altri pezzi. Anche lo stoccafisso subiva lo stesso procedimento. Ma, essendo molto più duro, perché essiccato ai venti gelidi del Polo Nord, aveva bisogno di più giorni per ammorbidirsi e l’acqua doveva essere cambiata ancora più di frequente. Era un poco più costoso e più coriaceo. Aveva un odore caratteristico.
In genere il baccalà era cotto in umido in modo tale che l’acqua, abbondante, si impregnasse del suo odore ma di pezzi ve n’erano veramente pochi (a volte per aumentare il volume si cucinava con le solite patate, pertanto si diceva, baccalà e patane; ma era anch’essa, come lo spezzatino con le patate, un’espressione… enfatica!). In compenso, come al solito, poteva essere accompagnato con abbastanza pane, meglio se raffermo o, per meglio dire, duro e, a volte, perché no, anche perute (ammuffito); questo perché molti lo facevano in casa ogni settimana o quindici giorni.
Un altro modo di usare questo pane “pietroso” era quello di cospargerlo con l’acqua di cottura dei fagioli, dei ceci, oppure con l’acqua fatta bollire con la semplice aggiunta di aglio e prezzemolo ed una goccia – dico “goccia”! – d’olio (da noi detta “acqua pazza”). A volte in questa si immergeva un uovo e se si usava il pomodoro, invece dell’aglio veniva cotta la cipolla tagliata grossolanamente in modo da sembrare un piatto più abbondante e ricco.
A me piaceva che fosse bagnato ’u culurcio perché si manteneva sempre un po’ più sodo.
A volte i pesciolini che, dove abito, vengono chiamati fravaglia (era sempre regalata), insaporiva, con l’aggiunta di pomodoro, quel brodetto. Questo veniva cosparso, nel piatto accuppùte sulla fell’i pane sempre dura, tagliata spessa e grossolanamente. La mollica pertanto diveniva morbida, calda e fumante. Era offerta anche ai più piccoli.
Quando mamma cucinava il baccalà o un simile “intruglio”, io fuggivo altrove in cerca di qualcosa di meglio, possibilmente un pezzo di salsiccia di cumpà Tatonno.
A parte l’odore, per me nauseabondo, forse quelle molliche inzuppate e morbide mi ricordavano la “pappetta” del famigerato cataplasma che si usava, come ho già scritto, per ammorbidire i “foruncoloni” prima che l’ago arroventato bucasse il cappelletto giallognolo formatosi alla sommità del piccolo monte. A “operazione” conclusa rimaneva un cratere su cui , in modo disinvolto – e, ahimè, senza scrupoli – veniva poggiato un bel batuffolo di ovatta o una pezza imbevuta abbondantemente di alcool denaturato a 90 gradi! Si diceva: – Più brucia, più fa bene!
Pertanto alla luce di tutto ciò posso tranquillamente affermare che molti di noi sono cresciuti in mezzo a mille “accortezze”, senza provare alcun dolore né fisico né morale o come si diceva “nella bambagia”! ( sic!).
Quando era giunto il suo tempo il gallo, fiero e pettoruto, raspava nervosamente scuotendo la testa con la rossa cresta or di qua or di là. Se ciurnuliàva, facendo appunto il… galletto. Quando la gallina, prima di “scacazzare”, lo invitava a… nozze, lui, volentieri, non rifiutava il suo dovere anzi faceva sentire a tutti il suo gradimento con sonori chicchirichì.
Nonna prendeva teneramente in braccio la chioccia e la posizionava in una cesta in cucina. La bestiola, mentre covava le uova, raramente si allontanava dal nido. Se succedeva, subito ritornava. Dopo un po’ di tempo si cominciava ad avvertire un primo pigolio e poi di seguito tutti gli altri, il locale si riempiva di pìo, pìo.
Poi la neo mamma portava i piccoli a far conoscere il calore del Sole.
Nonna, intanto, già aveva avuto cura di chiudere tutti i buchi della curteglia e di “ transennare” le uscite. Mi avvicinavo ai pulcini perché volevo che salissero nel palmo della mano per avvertire quel lieve solletico come quando si sollevava lo strummolo rotante per lanciarlo contro quello del compagno. Ma quelli quasi mai esaudivano il mio desiderio, anzi timorosi si radunavano sotto la protezione dell’ala materna che si gonfiava.
Chissà se oggi esistono ancora i vari Pepone e i galli pettoruti. Essi saranno sostituiti da tubi di plastica o da altri marchingegni, nella piena indifferenza di tutti, anche di quelli che si dichiarano amici degli altri esseri viventi.
Qualcuno asserisce, con convinzione, che ciò non avviene perché ai vari Pepone che vivono in strette gabbie ed ai galli, che non razzolano più, mancherebbe la forza per… Un altro dice – udite udite! – che, a causa di questa defaillance… divorzierebbero!
Sarà vero?
[La carne. (4) – Fine]