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La Carne (3)

di Pasquale Scarpati
Bistecche [1]

Il macellaio, come un maestro muratore o altro professionista esperto del mestiere, doveva avere mano molto ferma per tagliare a filo ed in modo uniforme il grosso pezzo di carne da cui ricavare la fettina, però quanto più sottile possibile, quasi trasparente per cui, vista la sua importanza, forse non a caso, essa veniva paragonata da alcune persone a… l’ostia consacrata.
Se avesse sbagliato il taglio, la carne, anche la più tenera, non solo sarebbe risultata coriacea, ma avrebbe dato anche un serio colpo al borsellino o a ’u maccatur’ (perché, nascondendolo nel petto legato ad uno spago, molte donne riponevano in esso il denaro) dell’acquirente.

La fettina [2]
Ma c’era comunque quello o quella più scazzellùse/ scazzellòsa (pignolo) difficile da accontentare per cui, come ho già scritto, costoro prima “ dissertavano” sulla qualità poi, dopo lunga discussione, volevano scarzia’ ( risparmiare), chiaitanne, (discutendo) ed infine compravano a… grammi.
Dicevano, infatti: Me daje’ cinquanta gramm’ o cient’ gramm’… La parola “etto”, infatti, nel vocabolario isolano era sconosciuta ai più, mentre la parola “chilo” era poco usata, specialmente per prodotti come ad esempio il caffè, il parmigiano e tutti gli altri formaggi, i salumi in genere (il prosciutto: chi era costui?), la stessa pasta e ovviamente anche la carne.

Ecco una scenetta (da Youtube) in linea con i tempi descritti e la preziosità della “carne”: Totò dal macellaio

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Adoperare, quindi, parole inconsuete poteva ingenerare una certa confusione. Vi fu un tempo in cui alcuni uomini erano stati costretti a calpestare il suolo delle isole ponziane, anche contro la loro volontà. I più asseriscono che fu un’ignominia; il solito ottimista (sic!) pensa, invece, che chi li inviò, in quegli anni lontani, lo fece solo e soltanto per far sì che questi potessero propagandare, una volta rimesso piede sulla terraferma, le loro bellezze, allora intatte.
Infatti tutti quelli che “me fecero la conoscenza”, una volta tornati sulla terraferma, si ricordarono della ospitalità ricevuta ed immediatamente si adoperarono per alleviare il misero stato delle suddette isole! (sic!). Si adoperarono, innanzitutto, per i collegamenti e pertanto fecero uscire quegli ‘Scogli’ dallo “ splendido isolamento”: Ponza ebbe per ben due volte a settimana ( mercoledì e sabato) una nave diretta per Formia con partenza alle quattro e mezzo del mattino; Ventotene addirittura una volta per l’andata (il giovedì) ed una volta per il ritorno (il venerdì). A questo si aggiunge che non vi erano né telefono, né, ovviamente per i tempi, internet. Le notizie quindi, quando arrivavano, erano… ben stagionate. Si adoperarono, poi, per penetrare nelle viscere dell’Isola nel profondo con l’intento, probabilmente, di voler separare definitivamente Le Forna dal Porto, vista la rivalità tra le parti. Insomma ebbero un occhio veramente “benevolo” per quei paesi e quelle Isole che li avevano ospitati. Alcuni pensano – guardate un po’ la mente umana cosa va a arzigogolare – che questa dimenticanza sia stato un accorgimento voluto, per il bene di quei territori, preservando le Isole come un oggetto tenuto gelosamente nascosto. Quando, infatti, molti si ricordarono di esse e delle loro bellezze o, per meglio dire, misero loro gli occhi addosso, accadde il dramma di cui spesso si parla.

Dunque si racconta che in quel tempo “beato”, una persona proveniente da quella terra che, tra i tanti sapori, annovera quelli della pasta con le sarde, le meravigliose granite ed i dolcissimi cannoli, entrò in un negozio e chiese, con nonchalance, alla signora che lo gestiva: – A quanto all’etto ’u’ tumazz’? che, si sa, nel dialetto di quella Terra (da un’Isola ad un’altra!) vuol dire formaggio, ma da noi ha un altro significato.
Quella non capendo né la parola etto né tantomeno il significato della parola tumazz’, fraintese il tutto e pertanto così, nella sua mente, tradusse letteralmente la frase in italiano:” A quanto, a letto il tuo… sedere? Oppure: – Quanto vuoi per…?

La sua risposta, piccata, non si fece attendere: “Vatt’ a piglià chill’ e’ soret’!”: Al che il pover’uomo, avendo capito che le sue parole erano state fraintese, scusandosi, chiarì, questa volta in italiano, il suo pensiero (Io, però, penso che quello ci aveva provato!)

Cumpa’ Tatonno calava il grosso coltello dall’alto verso il basso, tirandolo verso di sé, all’indietro, in un’unica sequenza senza segare, come se seguisse una linea immaginaria tracciata sull’enorme pezzo. La lama affondava nella carne che sembrava più morbida del burro. La fettina si staccava dal pezzo. Uniforme, veniva riposta delicatamente sul solito foglio di carta oleata. Una volta poggiata su di esso, Tatonno le dava uno o due colpetti con il piatto del coltello, quasi a volerla distendere ulteriormente. Soddisfatto, guardava la “sua creatura” Per lui non era complicato neppure tagliare una bistecca o una lombata. In tal caso oltre al coltello usava una mannaia (accett’) abbastanza grossa. Con quella riusciva a spaccare anche l’osso del costato in due. Prima tagliava la carne e poi, zac, l’osso. Non una scheggia di osso sul grosso ceppo. Come ho già detto sempre e comunque “molto sottili”. “ Cumpa’, me raccumann’ – diceva la cliente con voce implorante dal basso del bancone posto in alto come lo scranno di un giudice – falla fin’ fin’ pecché mammà nu s’a po’ mangia’: nun tene dient’! “ Non aveva tutti i torti! A volte era talmente dura che – E’ tost’ comm’ a’ sol’e scarp’ – si lamentava.
Questo paragone era affidato alla fantasia, in una sorta di “volo pindarico” perché nel tempo in cui la suola delle scarpe era costituita da cartone pressato, la carne dura era paragonata al cuoio inesistente! Così il cliente, borbottando, pensava che fosse carne di “vaccina vecchia” la cui mamma era sbarcata sul monte Ararat, dopo il diluvio universale, da una nave chiamata “Arca”. Invece sarebbe potuta appartenere a quelle mucche erranti che si vedono pascolare su per i pendii delle colline o delle montagne e quindi veramente “paesana”.

Oggi la carne è quasi sempre tenera perché tra l’altro le vaccine “siedono” perennemente nelle stalle leggendo il giornale, guardando la TV, nutrendosi di cibi “raffinati”, evitando soprattutto l’accoppiamento perché… troppo faticoso. Eppure le giovenche si ingravidano e partoriscono vitellini. Mistero o miracolo della vita moderna! Il filetto, però, sempre tenero, era destinato ai bambini mentre agli ammalati era propinata la cosiddetta carne “al sangue” che, cucinata a “bagno maria” in una bottiglia, lasciava uscire tutto il suo umore. Questo lo si faceva bere perché si pensava che “facesse sangue”.

Altresì ad essi veniva dato l’uovo fresco che per i più piccini era chiamato ’u cacocch”. Forse per questo vi era un detto: – l’uovo u’ chiamm’ ’u’ cacocch per indicare una persona che faceva il finto tonto o restava costantemente in “mezzo al guado”; ma anche ciò appartiene esclusivamente al passato! Oggi i mass media o la società non consentono più né la finzione né i tentennamenti!

L'uovo sbattuto [3]

L’uovo veniva battuto con lo zucchero in modo da formare una crema densa e gialla, molto dolce. Chi aveva la possibilità vi mescolava un po’ di marsala semplice o ad uovo per renderlo ancora più sostanzioso o forse più appetitoso oppure veniva offerto crudo o à la coque.
Nel primo caso vi erano due modi di gustarlo: o lo succhiava totalmente oppure toglieva o succhiava, in un primo momento, soltanto l’albume, poi spezzava la parte superiore del guscio lasciando il tuorlo nella parte inferiore e in esso inzuppava una mollica di pane; in ambedue i casi bisognava aver forato il guscio da ambo le parti. À la coque era un modo più “raffinato” perché nella cottura bisognava stare attenti affinché non divenisse “sodo”; poi, per gustarlo, bisognava usare il cucchiaino.

Nella macelleria vi era sempre una sensazione di fresco e un odore acidulo. Oggi l’affettatrice, sostituendo la manualità, rende tutto più semplice e più veloce, come dire alla portata di tutti o quasi; ma, a mio parere, è meno soddisfacente.

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[La Carne. (3) – Continua]