di Pasquale Scarpati
Prologo ai lettori
Chiedo venia se, nel girovagare tra le mie “rimembranze” non faccio buon uso, nella traduzione grafica, delle parole dialettali, impresse, da bambino nella memoria.
I “puristi” del dialetto abbiano comprensione e gli altri che mi vogliono leggere non “torcano il naso”.
Parole come “cannarizzia” (brama di qualcosa) o “scevelùt’” (voglia insoddisfatta) chissà se vengono più usate oppure espressioni del tipo: “s’è sciuòvt’ ’u cuorp” (si è liberato il corpo) in senso reale e/o metaforico oppure “scalomma a chella vann’” (scompare/sparisce dall’altra parte o sull’altro versante) o ancora il termine “sbuccàt’” (che non vuol dire sboccato, ma “si versa a mare” detto di un ruscello oppure è sparito o si è manifestato); esse appartengono, penso, oramai alla tradizione dei padri. Quest’ultimo termine si rassomiglia a ciò che sentivo dire a proposito del dialetto delle Forna. A quanto pare in quella località si usava molto la “gliù”. Sentivo dire espressioni tipo: “E’ gliut’ e gl’ venut’ ha maglicat’ e se ne gliut’” (è andato, è tornato, ha mangiato e se n’è andato) oppure frasi come “abbocc’ o ammocc’ a la chies’” (quando si stava per entrare in chiesa) oppure “a li’piattell’” (sul sagrato della chiesa, praticamente nella piazzetta).
Questi suoni ogni tanto frullano nella mente e riemergono come quando il mare restituisce nascosti reperti e perciò sempre più preziosi. Forse, non so, sono vocaboli desueti ma sarebbe interessante se ogni Paese, compreso il nostro, non solo li riqualificasse ma andasse anche alle origini, se possibile.
Ai miei tempi, ahimè la memoria, il dialetto erano banditi, scacciati da tutte le scuole! Conservo ancora vecchi quaderni in cui l’insegnante con la matita rossa o blu scriveva lapidario: Dialetto! dialetto! E giù un bel “quattro” (Non c’era da spaventarsi perché con quel voto si stava nella media della classe! Pochi coloro che raggiungevano la sufficienza, rari quelli che riuscivano a prendere poco più di tale voto, come dire: “mal comune, mezzo gaudio”).
Ma quella è un’altra storia che fa parte della “buona scuola di una volta”.
Chi la ricorda?.
Quello era anche il tempo in cui uno di noi, interrogato dalla maestra su quale fosse, in italiano, la parola corrispondente a “purtuàll’” (arancio), senza scomporsi, immediatamente tradusse: “portogallo”. Non ricordo la reazione dell’insegnante; noi non solo ci crepammo dalle risate, ma per giorni “martirizzammo” il poverino perché in quel tempo bastava poco per prendere in giro qualche coetaneo (anche un semplice paio di occhiali), aspettando con fare birichino, già sulla difensiva, la sua violenta reazione e di conseguenza la nostra risposta altrettanto violenta. Così come violenta era la reazione dei genitori (avevamo sempre e comunque torto e ad essi spesso si associavano anche gli educatori).
Erano i tempi: duri e arcigni! A parte tutte queste disquisizioni linguistiche erudite, a me piace ricordare i tempi in cui, bambino, vivevo l’atmosfera isolana che oggi non può esistere più ma che può dare, forse, una spinta a qualche fugace riflessione.
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Il racconto, da un’idea di Silverio Guarino: “La carne”
Al tempo in cui le persone si identificavano ancora con il “di” o con il “fu”, quando il cognome non era altro che segni grafici scritti a penna su un “pezzo di carta” da esibire a enti pubblici e privati e, per quanto riguarda gli isolani, soprattutto nei tribunali – tutto era più semplice: per individuare una persona bastavano i soprannomi o addirittura semplici vocali: una “i” oppure una “u” oppure una “o”, ecc.), quando ancora molti genitori avrebbero preferito che i figli apprendessero, fin da piccoli, un mestiere perché dicevano: “’A’ scola è ’na pèrdit’i tiemp’”, quando il comparatico era lungo ben sette generazioni e i fantolini, infagottati in lunghe strisce, come mummie, strillavano e, una volta tolte le “bende”, mostravano il culetto divenuto rosso perché rimasto a lungo sporco, mentre quelli più grandicelli, guazzavano nudi o quasi, nel fango e nella polvere, con il musetto impiastricciato di sanguinaccio o marmellata fatta in casa e la colazione e/o ’a marenna si riduceva a pane e zucchero, con o senza una goccia d’olio, in corso Carlo Pisacane, nella via stretta che porta dal “ruttone” di Sant’Antonio alla “Chiana janca” soltanto in due occasioni particolari si chiudevano i pesanti battenti delle porte delle case prospicienti tale via.
La prima, quando un mesto corteo la attraversava. Uomini portavano a spalla ’u’ scutill’ (la bara). Dietro uomini e donne, piangenti, che si asciugavano le lacrime c’u maccatùr’. Il corteo poteva essere composto da poche persone oppure, se il defunto era una persona conosciuta, poteva essere abbastanza lungo (in genere gli ultimi si disinteressavano delle preghiere: avevano altro di cui parlare); qualche volta era accompagnato anche dalla banda musicale.
Lunghissime e malinconiche note riempivano l’aria quasi a voler richiamare l’attenzione di tutti sul luttuoso evento. E tutti, in segno di rispetto, chiudevano le imposte o i battenti.
Un silenzio penetrava nel silenzio: non voci canore di giovani donne che mentre riordinavano le stanze, cantavano “portami tante rose” né suono di qualche giradischi che, collegato ad una radio a valvole, faceva girare un gracchiante disco in vinile da 78 giri su cui “ballava” un’asta che aveva all’estremità una testa grossa con una puntina che sembrava un piccolo cuneo… ma scalpiccio, litanie, singhiozzi, sussurri…
Aleggiava un’aria quasi rarefatta, surreale. Il corteo avanzava lentamente calpestando, con passi cadenzati, anche le linee che, con il gesso, noi bambini avevano tracciato sul cemento della strada là dove essa si allargava un pochino: nei pressi dei negozi di Maria ’a tabaccara” moglie di Vicienz’ ‘u pannazzare, di Ciuffini, l’orefice, di cumpa’ Tatonno ’u janchiere” e di mast’Arturo, il gelataio.
Segni di gioia e di divertimento: il cerchio p’u zicchinètt’ e soprattutto ’a campana o “settimana”. Quella che in teoria sarebbe dovuta essere una prerogativa delle bambine ma dove anch’io, qualche volta, tralasciando i più “rudi” giochi dei bambini, mi mescolavo solo allo scopo di generare confusione tra loro che erano più precise e metodiche.
Altresì le scimmiottavo quando loro giocavano alle “belle statuine” oppure mi lanciavo sulla corda, per intralciarle, mentre due di loro la facevano roteare ed un’altra saltava.
Si adiravano: – Pascali’ ’a vuo’ ferni’?” I’ddich’ a mammeta’ – protestavano.
Allora mi allontanavo non per la paura delle loro minacce, ma perché avevo raggiunto il mio scopo: non tanto quello di disturbarle bensì quello di farmi notare!
Non credo, pertanto, che avrebbero messo in pratica le loro minacce.
Ma i segni, come tutti i segni, venivano sistematicamente cancellati anche dalla pioggia o da qualche altro elemento. A volte, anche sbiaditi venivano, come per dire, riutilizzati oppure si ridisegnavano con un pezzo di carbone sottratto al focolare in muratura.
Le donne procedevano vestite di nero ed con il capo coperto da un velo anch’esso nero mentre gli uomini, dalla barba incolta o non rasata, portavano una vistosa fascia nera ad un braccio. C’era anche chi, forse più riservato, portava, all’occhiello della giacca, semplicemente un bottone, anch’esso nero.
Non manifesti funebri. D’altronde sarebbero stati inutili sia perché si risaliva facilmente alla persona che aveva finito di trascorrere i suoi giorni, sia perché quasi nessuno avrebbe potuto leggerlo, essendo l’analfabetismo ancora diffuso specialmente tra gli adulti e gli anziani.
Non avrebbero né letto e neppure capito quella “cosa fredda appiccicata” al muro.
Alla fine del rito funebre i parenti più stretti si raccoglievano, zitti zitti o parlando sottovoce, nella casa del defunto dove il focolare sarebbe dovuto rimanere spento per più giorni.
Ecco: gli amici più stretti o altri parenti si affrettavano a portare qualcosa da mangiare a quelli che, se d’inverno, stavano infreddoliti intorno a ’u rasiére’. Ognuno portava in base alle proprie possibilità anzi anche qualcosina in più per “non fare brutta figura”.
Ma ciò che può indurre ad una qualche riflessione è il fatto che coloro che si adoperavano nel preparare e fornire il cibo dovevano mettersi d’accordo con gli altri per non servire le medesime pietanze. Erano i tempi in cui bastava poco per sentire la vicinanza ed il senso di appartenenza ad una famiglia o ad una comunità.
Questo, direbbe qualcuno, oggi non ha più senso: appartiene al passato! Anzi, afferma: “Nella globalizzazione siamo al di fuori di questi spazi angusti: siamo cittadini del mondo!”.
Ma come la forza più si dirada , più perde consistenza, così questo sentirsi cittadini del mondo, in senso lato, perde solidità, resta quasi un’idea astratta. Alla base di tutto, invece, c’è l’appartenenza ad una piccola comunità, cominciando dalla famiglia. È lei il motore che fa girare tutto.
La mestizia presente nell’aria mi metteva malinconia, per cui se avevo sentore dell’avvicinarsi di qualche “triste” corteo, immediatamente partivo da casa e, salendo le scale a due a due, mi rifugiavo a casa di nonna Civitella, lassù sulla curteglia. Ma il più delle volte cadevo, come si suol dire dalla “padella nella brace”.
A nonna, infatti, non sfuggiva l’occasione per raccontare fatti misteriosi. Assummàvan’ (apparivano) come per incanto, munaciéll’; lucette minute: lumini o moccoli di candele (’i cerògene’?) vagavano disordinatamente, nel fitto buio della notte nera come la pece, tra ’u ciardìn’ ’i Pataccone situato sul promontorio, lo scorcio di mare che si vedeva dalla finestrella di casa sua e la porticina del pozzo situato vicino casa mia; ombre o persone che si fermavano un attimo all’inizio della discesa verso ’u rutton’i Sant’Antonio per poi svanire nel nulla; voci la cui provenienza era incerta: ora dal Corso, ora dalla Dragonara, dietro la curva, ora dalla Via Nuova, ora dallo stesso ruttone.
Narrava, nonna Civitella, di quando lei, ancor giovane, aveva sentito dire di quatti (coatti) buttati in un pozzo nel “Bagno vecchio”, salvati da un vecchio dalla barba bianca.
In quell’atmosfera lugubre, ascoltavo terrorizzato e non vedevo l’ora che arrivasse zia Malvina per potermi distrarre trafficando intorno ad una macchina da cucire (una vecchia Singer a pedale), o impiastricciando qualcosa sui fornelli della cucina (zia mi permetteva di fare qualsiasi cosa) oppure ascoltando altre favole: Il gatto con gli stivali, Biancaneve ed i sette nani, Cenerentola, Cappuccetto rosso, Pollicino ed altre.
Ugualmente però in queste esisteva un personaggio, brutto e violento: un orco, una strega, una matrigna cattiva che, se non altro, aveva la capacità di farmi rannicchiare nel lettone di nonna e godere del tepore della casa riscaldata dal calore d’u rasiére la cui cenere veniva mossa di frequente per non soffocare il fuoco (la mattina successiva senza quel bello ed avvincente rossore della carbonella o della legna, tutto nero ed incenerito, il poverino appariva triste, come una persona senz’anima) e soprattutto dall’amore che sentivo intorno a me.
Così mi addormentavo lasciando fuori la porta il mondo con i suoi problemi ed il vento che li portava via.
Questa foto risale probabilmente al 1945. Ritrae l’ingresso della casa natia con i pesanti battenti ed una sola chiave molto grossa.
Guardando, sulla sinistra, si nota l’apertura del pozzo chiusa da una porta di legno di cui ho parlato. Da sinistra mio zio Eugene (detto Gino) soldato dell’US Army, di seguito la moglie (zia Carmela). Appoggiato ad un’anta del grosso battente, mio fratello Carlo in abito da “cerimonia”. Ancora, sulla porta zia Malvina di cui spesso narro; davanti a lei mia madre, poi un ragazzo che non conosco ed infine, forse mia cugina Civitina.
Al di sopra della porta d’ingresso la finestra dell’appartamento del piano di sopra. Dall’altra parte il portoncino che portava ai due piani superiori dove all’ultimo c’erano quando sono nato, Clorinda, Vittorio e poi Cristina.
La foto probabilmente fu scattata nel giorno del matrimonio di mia zia Carmela perché, a quanto mi viene detto – io ero ancora “in mente dei” – fu l’unica volta che mio zio “Gino” mise piede nell’isola.
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[La carne. (1) – Continua]