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Scrivere in dialetto

di Carmine Pagano
Pulcinella.1 [1]

 

Volevo fare una riflessione sull’uso e l’abuso del nostro dialetto ponzese, quando a qualche nostro compaesano viene in animo di metterlo per iscritto.
Intanto è opinione diffusa che il “ponzese” sia fondamentalmente diverso dal “napoletano” e questo, a mio avviso, è una solenne cretineria.
Tutto ciò che abbiamo in ordine ad usi, costumi, tradizioni, deriva dalla cultura napoletana portata sull’isola dai nostri progenitori, tra questi anche il dialetto che, certamente, nel corso dei secoli di isolamento dalla “casa madre”, ha subito delle variazioni. La vocale “u” usata come articolo in sorte della “o” originaria (u sole anziché o sole) la “i” invece della “e” (i mane anziché e mane) ma sono piccole varianti rispetto alla lingua originaria, di cui è rimasta invariata tutta la forma grammaticale ed il modo di scriverla.

Adesso è tutto un fiorire di parole che sembrano dei codici fiscali per l’assenza di vocali, mettendo insieme tre o quattro consonanti, un vero tripudio di apostrofi ed accenti messi più o meno a caso, persone che si atteggiano ad esperti senza averne titolo ai quali consiglierei di leggere autori tipo: Raffaele Viviani, Salvatore Di Giacomo, Eduardo, Totò.
Leggete ed imparate.

In passato c’è stata una persone che ha cercato di mettere ordine alla questione, affermando che non tutte le parole debbano essere tronche, che le vocali finali vanno scritte e non pronunciate, costui era il compianto maestro Ernesto Prudente. Purtroppo è rimasto inascoltato.

Scrivere in “ponzese” non significa inventarsi una nuova lingua poiché è la trasposizione del “napoletano” ed essendo il “napoletano” la lingua di grandi maestri merita rispetto.