Ambiente e Natura

Quando ’i ’vvaccine arrivavano a Ponza con i loro zoccoli… (1)

di Silverio Guarino

 

1. L’arrivo in porto e la salita impietosa

I giovani d’oggi dell’amato scoglio (ed anche alcuni meno giovani) non ricorderanno queste storie che vi vengo a proporre e che rappresentano, a modo loro, un capitolo particolare e singolare della nostra terra.

Dunque, quando a Ponza (fino alla fine degli anni ’50) c’erano forse solo due macellerie (quella di Luigo Di Monaco sul corso Pisacane al porto e quella di mio zio Tatonno Guarino ’u chianchiér, alla punta bianca), la carne arrivava direttamente addosso all’animale, nel senso che le mucche e i vitelli giungevano sull’isola con le loro zampe, caricati sui bastimenti, dopo essere stati acquistati dai macellai dell’isola nei mercati del continente.

Sul glorioso “Papà Vincenzino” di Peppe e Silverio Mazzella (Sigarètt’), caricati con un paranco che passava sotto la loro pancia, giungevano sull’amato scoglio questi animali, pronti a diventare pietanze per le nostre cucine. Qualche volta venivano “sganciati” nel mare del porto e, accompagnati a nuoto, raggiungevano la banchina, abbasce Mamozio.
Non erano proprio tranquilli, come se presentissero la loro vicina sorte, e, per questo, non ne volevano proprio sapere di arrivare nel luogo dove si sarebbe verificato il loro estremo sacrificio (“mors tua, vita mea”, come recitava il libro di Economia Domestica delle nostre compagne della scuola media di una volta) emettendo muggiti lamentosi, carichi di inquietudine.

Vitello

Con spinte, nerbate e coercizioni (si torceva loro la coda per farle camminare), ’i ’vvaccine percorrevano la salita del porto, la salita della chiesa ed arrivavano finalmente al “macello”. Questo locale piccolo e angusto, buio, maleodorante e insalubre, si trovava dove una volta c’era il ‘Mariroc’ (adesso ‘Orestorante’), con una “uscita” sul mare.

Lì, ’i ’vvaccine rimanevano il tempo minimo che le separavano dalla loro uccisione, che avveniva per mano dei singoli macellai, ognuno impegnato a ricavare carne dalle bestie da loro acquistate in continente.

Spesso l’uccisione era il momento per dimostrare il proprio coraggio e tra i ragazzini di allora, c’era una vera e propria gara per poter assistere. Uccisione che avveniva con un colpo di pistola alla testa, che determinava una morte istantanea dell’animale.

Io non ce l’ho mai fatta ad assistere, anzi, stavo lontano sia dallo spettacolo del trasferimento dell’animale al “macello” che alla sua “esecuzione”, anche se poi ero tra quelli che mangiavano polpette, fettine, bistecche e brodi vari, che da lui “provenivano”.

Il tutto si svolgeva periodicamente, in un clima di “normalità” ed in apparente assenza di leggi o regolamenti di igiene veterinaria che potessero allora controllare o modificare le modalità delle procedure messe in atto. Ma noi, non ci ammalavamo mai.

Da Mattei. Torre Farnese Vecchia stampa

Da Mattei. Torre Farnese. Vecchia stampa

2. Il bagno dietro la scogliera

Dopo l’uccisione del capo di bestiame, i macellai procedevano a “sfasciare” la bestia, nel senso di dividere per quarti, separando le interiora dai muscoli e dallo scheletro e provvedendo a dividere pellame, corna e zoccoli, ripulendo del “superfluo” le parti destinate alla vendita al pubblico.

Della bestia si mangiava tutto (oltre, ovviamente alla carne dei muscoli vera e propria): lingua, trippa, rognoni, cuore, muso, fegato, coratella, testicoli, cervello, tendini e “nervetti”, midollo e ossa per il brodo, mammelle (come altrimenti si poteva denominare “zizz’i vacc’ quello scoglio nella rada di Frontone, senza averne mai vista una dal vivo?).

La carne veniva appesa con ganci al soffitto nell’angusto ambiente del “macello” e lasciata “frollare” il tempo necessario a che potesse essere poi venduta, cucinata e successivamente mangiata.

Il tutto avveniva provvedendo a far prima “scolare” in mare attraverso una piccola feritoia che comunicava con l’esterno (dietro la scogliera, per intenderci), tutti i residui (tutti!) non destinati all’alimentazione.

Se in quei giorni si aveva l’avventura di fare il bagno dietro la scogliera, ci si accorgeva subito dell’avvenuta macellazione di un capo di bestiame.

A pelo d’acqua si poteva percepire chiaramente un “tanfo” di stallatico (per usare un eufemismo), tanfo nettamente diverso da quello che si poteva percepire nel tragitto fatto spesso a nuoto di lunedì (quando non c’erano mezzi navali in arrivo) “Caletta-spiaggia di Sant’Antonio”, che era caratterizzato invece da sgradevoli miasmi di cocomero e di frutta marcia.

Se si usava la maschera (antesignani dello “snorkeling”) si poteva chiaramente verificare che il mare, per i primi 30-50 cm dalla superficie, era sede di una opacità granulare omogenea, di colore grigio-ardesia, costituita dai residui particolati del lavaggio del “macello”.

Dalla feritoia del macello si poteva vedere chiaramente lo scolare di tali liquami, che durava il tempo di completare le operazioni del lavaggio.

Se uno era distratto, poteva anche incappare, nuotando, in un incontro con un organo galleggiante a pelo di superficie (vescica, laringe, aponevrosi, vasi venosi e arteriosi) o con pezzi più consistenti, dando una “capata” all’oggetto non identificabile, ma di sicura matrice vaccinica.

Il levante e la fauna marina locale (pesci, gabbiani e “zoccole”), provvedevano a fare pulizia (in tre-quattro giorni) di tutto ciò ed il mare dietro la scogliera ritornava al suo primitivo nitore.

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