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Conosciamoci meglio (2)

di Francesco De Luca
Cimitero. La discesa [1]

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Per la prima parte di questo articolo, leggi qui [2]

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Nel Cimitero ogni defunto aveva ed ha il suo loculo. Talora lo condivideva con un parente. Perché anche nell’aldilà il sangue crea comunità, ed essa sconfigge la solitudine.

Il giorno settimanale dedicato alla cura del loculo è il lunedì. Si rinnovano i fiori, si sostituiscono i lumini, ci si scambiano aerei sentimenti d’affetto. Il primo lunedì del mese si celebra la messa in suffragio, nella Chiesetta del Cimitero.

Sembrava una processione informale, tempo addietro, quando di buon mattino i Fornesi, lasciata la corriera a Sant’Antonio, si recavano al Cimitero. Più numerose le donne, e qualche recente vedovo, vestiti rigorosamente di nero, con in mano fiori di stagione: calle in primavera e margherite, gigli rosa in autunno, fiori di aloe a gennaio.

La mattinata passava in quel sacro recinto: acqua nuova ai fiori, togliere dal pavimento la terra portata dal levante, lustrare le foto e nel farlo ricordare episodi di vita passata con la vicina di turno. Con essa poi si passa in rassegna la vita privata dei compaesani. La vita sociale si correda di coloriti pettegolezzi, malignità, elogi. Questi, pochi in verità e accennati, perché il crivello del giudizio sociale ha buchi molto stretti.

Ho detto dei Fornesi ma identico copione è seguito da tutti i paesani.

Con l’ avvicinarsi di novembre l’agitazione intorno alle cappelle mortuarie private e ai loculi diventa più evidente. La ricorrenza del 2 novembre era interamente consumata nel Cimitero. Occorreva rendere evidente quanto la famiglia tenesse ai suoi membri, nonostante la morte. Anzi, oltre la morte.

C’erano donne che sulla seggiola portata da casa trascorrevano l’intera giornata accanto alle foto dei cari. Occorreva fare gli onori della famiglia a chi entrava timidamente con la testa a costatare chi vi giaceva sepolto. Donne che indicavano con lo sguardo che lì c’era il figlio: “Franchino mie è muorto a nove anne. Aveva fatto chill’anno ’a primma communione”.
Ripeteva la storia, senza astio verso “chella malatia ca se pigliave ’i ’uagliune pure grussecielle”.

Ho amato da ragazzo quelle vecchine: figure insolite e fascinose in quel giorno in cui i nonni avevano dato segno tangibile della loro vicinanza. Al risveglio infatti avevamo trovato, noi ragazzi, le “scarpe”, poste di proposito sotto il letto, colme di dolcetti.
Nella notte i nostri defunti ci avevano fatto visita e avevano lasciato un ricordo. Soltanto a noi ragazzi, affinché il filo della continuità affettiva fosse perpetuato.
Una euforia contenuta ci permeava, e la visita al Camposanto era esplorativa e divertente, superficiale e toccante.

Da giovane ho ripudiato l’infantile credenza e ho giudicato eccessiva l’importanza data ai morti, mentre la vita scorre e si consuma. Tutto quel nero ossessivo, tutta quell’apparato senza sostanza, perché la morte non si combatte. Oggi mi pare chiaro come quel “culto” paludi un bisogno umano, reale, e la “preghiera” tenti di riannodare un filo spezzato nella carne ma non negli affetti. E sono tornato ad amarle.

Si è attenuato oggi quel voler dimostrare un legame che soltanto la morte rende puro, lindo… “Era ’nu sant’omme, maie ‘nu sgarbo, maie ‘na iastemma”. Perché la vita, si sa, non riesce a profumare che per pochi attimi. Anzi, mi pare che oggi il Cimitero veramente faccia da ‘livella’ agli strati sociali e alle differenze di censo. Più di ieri, quando era doveroso far visita alla cappella del notabile. Con l’altare più ridondante di fiori, e un nugolo di comari a fingere di pregare.

Perché ieri il Cimitero e le devozioni che vi si praticavano rinsaldavano gli strati sociali. Luogo di socializzazione, e di ostentazione dello stato sociale.

Ribadisce l’importanza del Culto dei Morti presso la cultura ponzese la presenza di imprecazioni attinenti. È una legge “classica” quella che sancisce come l’imprecazione tragga valore dall’importanza dell’oggetto messo in causa. Più alto, onorifico, sacro è l’oggetto, più l’imprecazione ingrossa la blasfemia.

Ebbene due sono le imprecazioni popolari riguardanti i Morti: “’I muorte tuoie” e “’i chi t’è stramuorte”. Orrendi intercalari che abbrutiscono le espressioni e chi le profferisce.
Come tutte le imprecazioni sono sfoghi che si concretizzano in espressioni verbali prive di sostanza. Vengono partorite dall’istinto e sono ancorate alle “verità istintive” dell’individuo. Più gratificante è l’imprecazione se utilizza contenuti di credenza sentiti.

Oggi il 2 novembre si trascorre a rinverdire il ricordo di chi ha accompagnato la nostra vita, fino ad un certo punto, lasciandoci il testimone dell’esistenza. Curiosità dunque, nostalgia, e poi dolore.

A Ponza il dolore è misto alla salsedine. Puoi cercare di ripararti ma non ce la fai a rimanere immune. È nella costituzione di noi isolani provare il dolore dell’abbandono ed esserne attratti.

Così, ogni lunedì, e chi non può il venerdì, si va al Cimitero come una sana abitudine o come fare una visita di cortesia.
“Pure ogge iate a ’u Cimitero?”.
“E sì, ogge è ’a viggilia ’i Natale e vaco a da’ l’augurio a Pascale mio. Dimane ’nce pozzo veni’… è chiuso!”

Cimitero. Foto di Gaia de Luca [3]
Lo so, sono partito da una impostazione antropologica e sono giunto a considerazioni sentimentali.
Non l’ho fatto apposta e forse è il segno che a Ponza il culto dei Morti è più che una ricorrenza civile, più di una attestazione religiosa: appartiene alla nostra cultura. Ieri, come oggi.

Cimitero dall'alto [4]

 

[Conosciamoci meglio. (2)]