Ambiente e Natura

Destinazione: le Formiche

di Francesco De Luca
Formiche

 

“Le isole ponziane durante l’impero di Carlo Magno furono infestate dai Mori, o Saraceni” – è la voce della guida che dagli altoparlanti ripete la storia, come impone la gita turistica.

Dalle previsioni meteo fra una settimana l’anticiclone verrà soppiantato da un tempo incerto, ma oggi la giornata gode di mare piatto e di sole cocente. Tutto come vuole l’estate isolana. Le Formiche, sono la destinazione verso cui punta la barca, quegli scogli in fila, in faccia alla Parata.

“I fedeli di Allah si andavano espandendo in tutte le terre costiere del sud del Mediterraneo, conquistando terre su terre, tribù su tribù, ai danni dell’Impero bizantino – continua la guida. Guerra di religione mista a desiderio di espansione, a bisogno di impadronirsi di fonti economiche.
Possedere i porti significava dominare i commerci e dunque avere potere sulle popolazioni interne. I traffici passavano tutti per il mare, vero teatro degli scontri. Il mare era il Mediterraneo.
Sta di fatto che nell’813, durante dunque l’impero di Carlo Magno, nel Mediterraneo le scorribande dei corsari saraceni erano un autentico flagello. Ne fu vittima anche Ponza perché in quell’anno fu saccheggiata dai Saraceni, i monaci dispersi, la popolazione sparpagliata, e l’isola rimasta disabitata. Alla mercé dei Saraceni, che ne fecero una base da cui partire per predazioni nei territori del Papa (Lazio) e del Duca di Napoli (Campania).

C’è infatti a Ponza, alle spalle dell’attuale chiesa, una collinetta dalla quale si domina l’insenatura del porto. Noi Ponzesi la chiamiamo monte mangiaracino ovvero “monte dei Saraceni”. Qui ci sono grotte e grottoni dove essi ebbero modo di alloggiare finché non vennero cacciati.

In mancanza di un imperatore interessato ai territori della Penisola l’Autorità in grado di coalizzare le forze per contrastarli era soltanto il Papa di Roma. Il quale riuscì a mettere insieme le armate di Amalfi, Napoli, Gaeta, e nell’849 i Saraceni subirono a Ostia una sonora sconfitta. Fu Papa Leone IV a fermarli alle porte di Roma.

Sembrò un successo definitivo e invece già trent’anni dopo i Saraceni erano di nuovo padroni del Tirreno, tanto da avere fisse dimore nelle città della nostra costa.

Papa Giovanni VII nell’873 decise di sradicarli. Fondi e Terracina e le altre città costiere furono ripulite ma il Papa sapeva di doverli estirpare anche dalle isole ponziane, se voleva fare opera di disinfestazione definitiva.

Nell’estate prese perciò il mare con diciotto navi. Quando arrivarono a Ponza i Saraceni avevano già lasciato il porto e s’erano nascosti con le feluche dietro il faraglione della Madonna e nelle calette, mentre le vedette erano appostate sul monte mangiaracino. In quelle grotte attesero le mosse del papa. Il quale scese e s’accertò che nella torre rotonda lasciata dai Romani sullo spiazzo della chiesa, non vi fosse nessuno. Non contento inviò la truppa a costatare che l’insediamento sul mangiaracino fosse deserto. A quella mossa i Saraceni si diedero a precipitosa fuga verso i legni alla fonda nelle calette del Belvedere e della Parata, ma non potettero nascondere la loro presenza.

Le navi pontificie allora si diedero ad inseguirle e, per quanto i legni saraceni fossero più veloci, li raggiunsero nelle acque delle formiche.

Con l’aiuto di Dio – scrisse il papa a Engelberga, moglie dell’imperatore Ludovico II – furono uccisi molti Saraceni.

La voce dall’altoparlante si ferma, la barca pure, e si è circondati dagli scogli delle formiche. Picchi che partono dal profondo. Di natura basaltica, a pochi metri dalla superficie si imperlano di crostazioni calcaree bianche, che rendono le acque invitanti. Soltanto lì però, perché un po’ oltre c’è il dirupo che s’inabissa e impaura col tono blu intenso e, giù giù, perfino nero.

Qualcuno si tuffa. Ci sono, incuranti del vocìo, i marangoni (uccelli simili ai cormorani, ma più piccoli), e qualche gabbiano.

La sosta permette ai turisti di provarsi a sfidare il proprio animo alla vista del mare senza fondo, nero e macabro; qualcuno getta un pezzo di pane e il gabbiano senza timore lo ghermisce; la guida con un coltello si porta allo scoglio più esterno.
Ritorna con quelle che chiama le patelle montagnole: “Sono più callose e più buone delle patelle comuni – sentenzia.

Una donna ci crede e l’assaggia. La guida dimentica di dire che il sapore vero lo dona l’ambientazione. E questa è irripetibile.

 

Immagine di copertina: foto di Gaia De Luca

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