Ambiente e Natura

A proposito di pane e… contorni (1)

di Pasquale Scarpati
Forno-pane

 

Cara Martina
I tuoi articoli sul pane (leggi qui e qui), letti tra una sudata e l’altra, mi inducono a fare un tuffo nel passato e nello stesso tempo mi sovvengono alcune riflessioni; spero, comunque, di fare cosa gradita a te e ai Lettori del sito.

Parlare ora di forno nella opprimente calura estiva non è semplice: ci vuole un po’ di… coraggio. Ma forse tu, inebriandoti alla brezza marina, non senti molto questo disagio, specialmente sull’imbrunire dopo che, durante il giorno, hai rinfrescato la pelle e l’animo nelle acque fresche, così terse da specchiare i fondali multiformi. Per me invece… e non è da poco rievocare gli anni trascorsi.

Quanto sia duro quel lavoro, ben lo conosce chi, soprattutto di notte, s’adopera affinché il giorno successivo sulla tavola ci sia la fragranza e la bontà di prodotti genuini.

Oggi nelle panetterie, si espongono tantissimi prodotti: dolci e salati. Alcuni semplici, altri più “complessi”, ma sostanzialmente composti da tre semplici elementi  di base: farina, acqua e sale.

Il pane che faceva Barbett

La farina rappresenta il passato ed il divenire dell’uomo. Il passato perché i semi si riproducono da quelli precedenti, il divenire perché l’uomo segue, passo passo e non senza una certa ansia, la sua crescita. Prima il seme giace sotto la neve, poi, pur piccolo, spacca il terreno; la pianta cresce, il vento l’accarezza ed il Sole la bacia intensamente affinché rispecchi il suo colore  ed il suo calore. Il tutto, però, non è scevro da inquietudine e da pericoli. Alla fine, però, un buon raccolto non può non portare gioia e soprattutto sollievo. Per avere ciò bisogna, però, che l’uomo s’ingegni sia perché nuove malattie sono sempre in agguato sia perché il fabbisogno aumenta. Ciò è dovuto sia alla crescita della popolazione sia  perché nuovi prodotti, fatti con la farina, vengono immessi sul mercato.

La farina

Oggi, nella società opulenta, c’è anche il problema dello spreco (in tutti i settori, ahimè; ma questa è un’altra storia) per cui si buttano tonnellate di cibo che potrebbero sfamare tantissime persone indigenti. Una volta, durante la mietitura, si lasciava cadere volutamente dei chicchi di grano affinché altri, i più poveri, potessero raccogliere e servirsene. Bada bene: non si donava “tout court”, ma anche il più povero, avendone facoltà, doveva lavorare un pochino per poter ottenere qualcosa (forse oggi qualcosa è cambiato).

Altro elemento è l’acqua che come dice S. Francesco: “ … è molto utile et humile et pretiosa et casta” senza la quale, sia sa, non vi può essere nessuna forma di vita.

E poi c’è il sale altro elemento essenziale per la vita umana.

Questi elementi semplici, “senza pretese”, erano gli unici lavorati nelle panetterie isolane. Non vi erano quindi altri prodotti con altri “intingoli”.

Dunque alla fine degli anni ’50 e all’inizio del decennio successivo Ponza constava di poco più di tremila abitanti.
Ben nove erano i panificatori!
Cerco di non dimenticarne nessuno e cominciando da Corso Carlo Pisacane posso dire che vi erano:
1) D’Atri, nella curva prima di arrivare sulla Punta Bianca,
2) “Barbetta”, da te citato, giù alla banchina nuova;
3) mio fratello Carlo, dove adesso è situata l’agenzia MAGI;
4) “’A Russiella” a Giancos o per meglio dire Sopra Giancos ( perché lì produceva il pane);
5) Bonaria, di cui tu parli, in via Staglio;
6) Generoso a Santamaria;
ed altri tre alle Forna (dei suoi abitanti si parla sempre poco)…:
7), 8) e 9) Mariettina e “A’ Palummella” sulla Chiana ed infine“Innar ’i ciomm” alla Calacaparra.

Il pane che faceva D'Atri

A tutti questi bisogna aggiungere che molte famiglie, soprattutto ai Conti ed alle Forna, avevano ancora il costume di fare il pane in casa. In media esso veniva prodotto ogni 10/15 giorni; pertanto usavano ’u pane frisc’ soltanto in determinate e/o particolari occasioni e ricorrenze o quando si voleva fare “bella figura” per eventi eccezionali: fidanzamenti, visite di parenti lontani ecc..

Siamo al tempo in cui  il turismo si affacciava timidamente. Solo qualche “VIP” faceva visita allo Scoglio e pertanto l’enorme fatica non era compensata da un buon guadagno sia per il numero dei panificatori in relazione alla popolazione sia per il prezzo del pane non molto alto rispetto al costo della farina (si aggirava, se non erro, intorno alle 100/110 lire al Kg. mentre la farina costava intorno alle 70/80 lire al Kg.) In compenso, però, si può asserire che Ponza era dei ponzesi veraci.

Impastare a mano

La lavorazione era essenzialmente a mano. Mio fratello aveva come unica macchina un’impastatrice elettrica a due bracci che poteva contenere un quintale di farina. A tal proposito  la farina che si usava normalmente era la numero “0” cioè quella non molto raffinata. A questa, qualche volta, si aggiungeva la numero “1” ancor meno raffinata. Raramente veniva lavorata la “00”, forse soltanto per i panini che si producevano su richiesta (erano utilizzati soprattutto nei “festini” matrimoniali insieme con i taralli ’nzogn’ e pepe) e le briosce (quelle col “piripicchio”).

Brioscia
Questi tipi di farina erano adoperati perché meno costosi. Quello che costava meno di tutti era ’u pan nir’ fatto con la farina di crusca (oggi detto integrale ed è quello che costa di più rispetto agli altri: segno dei tempi!). Chi lo comprava lo faceva quasi di nascosto perché: ’a vrenna (crusca) è ’u mangia’ d’i puòrc’.

Quindi la massaia si raccomandava: Nun me da’ ’u pan’ nir’! nunn’o voglio! A marìtem’ nun ce piace! – diceva.

Pane scuro

Mio fratello aveva avuto come maestro del mestiere un tal Giulio, originario di Vico Equense perché, si diceva, il pane napoletano era insuperabile.

Nella lavorazione era escluso tassativamente “il lievito di birra”. Tutto ruotava intorno al “criscito” (lievito madre).

A tal proposito devo dirti che tale lievito deve essere costantemente rigenerato con acqua e farina a distanza di poche ore.
Se qualcuno ne era privo, ne chiedeva un pezzettino a chi lo aveva e questi glielo donava volentieri. Così si creava una sorta di catena in cui ci si aiutava l’uno con l’altro, perché “il favore” avrebbe potuto essere contraccambiato (anche per questo, altri tempi, vero?).

Mani-con-farina

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[A proposito di pane e… contorni (1)Continua]

2 Comments

2 Comments

  1. Luisa Guarino

    23 Luglio 2015 at 17:36

    Quand’ero ragazzina vivevo in piazza, anzi tra la piazza e la Parata. Ricordo che compravamo il pane da Temistocle (Curcio se non sbaglio) proprio vicino all’attuale Hotel Mari, all’inizio di Corso Pisacane. Ma forse loro lo vendevano soltanto il pane, e non lo producevano. Pasquale potrà essere illuminante in questo senso. E in quanto a Barbetta (Alberto Migliaccio), io quel negozio lo ricordo di fronte all’attuale pasticceria napoletana. Quando è stato giù alla banchina? Immagino prima.

  2. Pasquale

    28 Luglio 2015 at 09:24

    Ho dimenticato, infatti, Temistocle. Lui produceva il pane nei pressi del cinema di Michele Regine, mentre la rivendita era situata nei pressi del giornalaio Rispoli. Altresì dicasi di compare “ Barbette”. Il vapoforno era situato sulla banchina nuova nei pressi del ristorante “ Abissi marini” di Gennaro i’ Tatill’, mentre la rivendita era dove dici tu. Ne sono certo perché qualche volta “ fruivo” di nascosto, non senza danni, del suo furgone ( che era un Ape); noi possedevamo un moto Guzzi).
    Ti dirò inoltre: al tempo in cui non c’era la banchina nuova ed il mare arrivava sotto le case, quel forno apparteneva a Giovanni Ronca ( che poi partì per Napoli). I sacchi di farina erano scaricati “ via mare”. Qualche volta in quella zona “ straquavano” anche “ i tuotani”, forse attirati da “ qualche altro elemento” che “sfociava” colà. Pertanto immagina che pranzo succulento: pane e frittura di “tuotani” ! – Pasquale

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