





|
|||
Comm’è bbuono ‘u pane. (1)
“Il pane rappresenta il cibo per eccellenza. [Da un recente articolo (su Repubblica dell’8/7/2015) di Marino Niola,
Dietro suggerimento di Giuseppe Mazzella, ho fatto un’indagine sui panifici nella zona di Santamaria. Ho chiesto informazioni a chi quel mestiere lo ha fatto e visto fare, come Giuseppe Mazzella (‘i Bunaria) e sua sorella Giovanna Mazzella o anche Dario Mazzella figlio di Generoso Mazzella, una famiglia di panettieri. Giovannina, in una lunga chiacchierata, mi ha raccontato tante storie – non solo relative al pane – che mi hanno incuriosita e sarei stata ad ascoltarla per molto tempo.
La legge prevedeva un panificio per un certo numero di abitanti: la località di Santamaria poteva averne due; così nel 1937 Bonaria entrò in possesso della licenza per fare il pane. Mattera per panificazione casalinga Il marito di Bonaria, che avrebbe dovuto gestire il forno insieme a lei, fu richiamato alle armi (siamo alla seconda guerra mondiale); la moglie, così come moltissime altre donne, rimasta sola, doveva gestire famiglia e lavoro. Il lavoro era tutto manuale e dal momento che non c’era neanche la corrente elettrica la lavorazione notturna era ancor più difficoltosa. Il forno era a campana, di pietra e mattonelle, ed alimentato a legna. Il fuoco all’interno di esso, veniva spostato in modo tale da irradiare di calore l’intera struttura. Forno a legna per pane. Schema e spaccato Man mano che la legna bruciava, veniva messa davanti l’imboccatura del forno; una volta arrivato a temperatura questa veniva tolta e con la panara vi si infornava il pane. Un altro importante arnese da lavoro era la stufarola: un fusto di nafta a cui veniva tolto il coperchio. Nella stufarola veniva inserita la legna bruciata e chiuso il coperchio; una volta satura e il legno spento, essa veniva rovesciata a terra e si sceglievano i vari tizzoni. Con le carbonelle più grandi si cucinava, le più piccole, definita muniglia erano destinate ai rasieri. Il braciere: ’u rasiére Spesso, soprattutto in periodo di guerra, le famiglie portavano dei sacchi in panetteria per farsi dare doie palate ’i muniglia per alimentare i bracieri d’inverno, oltre al normale acquisto di pane. A Giovanna toccava cernere la “muniglia” e riempiere le sacchette. Ogni forno produceva circa 50-60 chili di pane, Bonaria faceva due infornate. Il periodo di massima produzione fu durante il periodo di presenza sull’isola dei confinati. Indispensabile per fare il pane, così come adesso, oltre ad acqua e farina era ’u criscito, lievito madre, che serviva a far lievitare il pane. Il lavoro iniziava intorno alle sei di pomeriggio, quando si metteva a fare’u criscito, dalle dieci di sera iniziava il vero e proprio impiego che si concludeva all’alba o lamattina presto, dipendeva dalla produzione. Nella “mattera” si metteva acqua, sale e ’u criscito e si iniziava ad impastare; quando quest’ultimo era diventato liquido si metteva la farina. Si impastava a due per facilitare il lavoro.
Bibliografia essenziale Sul sito: Mostar, Matvejević e i miei viaggi attraverso “Pane Nostro”, di Lino Catello Pagano (leggi qui); Per leggere l’interessante articolo di Marino Niola citato in epigrafe, ricco di riferimenti storici, antropologici ed etimologici (“la Repubblica” dell’8/7/2017, pag. 47) , apri il file .pdf: Da La Repubblica. 08.07.2015. Marino Niola. Il Pane . [Comm’è bbuono ‘u pane. (1) – Continua] Devi essere collegato per poter inserire un commento. |
|||
Ponza Racconta © 2021 - Tutti i diritti riservati - Realizzato da Antonio Capone |
Commenti recenti