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Cinquant’anni da raccontare (2)

di Adriano Madonna

il tempo che passa [1]

per la prima parte (leggi qui [2])

 

“Giornaletti”, che passione!

Se a scuola si leggeva il libro Cuore, a casa le letture preferite erano l’Intrepido, Il Monello e Mandrake. All’oratorio si consigliava Il Vittorioso, che in quegli anni ebbe il suo momento d’oro. Nell’Intrepido c’erano eroi mitici, come il principe Chiomadoro e Roland Eagle (che noi leggevamo proprio così, Eagle, come, del resto, pronunciavamo Mandrake).

L'Intrepido [3]

Il Corriere dei Piccoli non attraeva più tanto: ormai Sor Pampurio e il Signor Bonaventura avevano imboccato il viale del tramonto. Si abbandonava il giornale per ragazzi formato quotidiano e si affermava sempre più il tascabile. Topolino, senza età (vive in casa degli italiani dal 1932), continuava imperterrito il suo inossidabile trionfo, ad onta del trascorrere dei tempi. E’ giunto al terzo millennio e tutto lascia presagire che continuerà oltre, in barba all’era dell’informatica, perché “Topolino telematico” non potrà mai competere con “quello di carta” che si leggeva seduti sulla tazza del…

Topolino [4]


Come quando c’era “lui”

Come ho detto, sui muri delle case vecchie del mio paese campeggiavano ancora scritte (neppure tanto sbiadite!) come “vincere” e “vincere e vinceremo”, ma a scuola della seconda guerra mondiale, dei cui effetti ci stavamo leccando le ferite, non si parlava proprio. Si preferiva rispolverare le pagine più gloriose del Risorgimento e si faceva un tifo sfegatato per i nostri soldati: viva l’Italia e abbasso gli austriaci!

A scuola si faceva la raccolta dei contributi volontari per il soccorso invernale ai poveri e per i mutilatini di Don Gnocchi, e si compravano i “francobolli della tubercolosi”. Sui muri di ogni aula erano attaccati i manifesti che esortavano a non raccogliere alcun oggetto sospetto: colline e pianure erano ancora piene di bombe e residuati dell’ultima guerra. I manifesti dovevano avere una funzione deterrente e ci riuscivano benissimo: ne ricordo uno in particolare, orrendo, che raffigurava un bambino senza mani che si asciugava le lacrime con i moncherini, ma ce n’erano anche altri: rappresentavano un ragazzo che saltava in aria su una mina e un altro che chiamava i Carabinieri.

manifesto contro il pericolo delle bombe [5]

Al piano terra della nostra scuola c’era una cassetta piena di bombe disinnescate affinché imparassimo a riconoscerle. Tra le bombe “antiuomo”, si diceva che ce ne fosse una che assomigliava a una penna stilografica.


Emozioni in celluloide

Nei cinema delle grandi città ci si commuove a grandi lacrime con “Marcellino pane e vino”, e si aspetta con ansia che il film, vero record di incassi, giunga anche nelle sale di provincia. Intanto, arriva il libro, che va a ruba. Pablito Calvo, il bambino spagnolo minuto con i grandi occhi, che ha interpretato Marcellino, tenta di involarsi sulle ali del successo e di sfondare nel mondo della celluloide, ma non ci riesce e “da grande” sarà uno qualunque.

marcellino pane e vino [6]

Trascorsa questa ondata di ascetico misticismo cinematografico, i giovani e i meno giovani continuano a gremire le sale quando si proiettano i film di Tarzan. Il famoso grido che chiama a raccolta gli elefanti è quello di Jonny Weismuller, che si accompagna sullo schermo con una Jane dai castigati straccetti e con Cita, una scimmia intelligente che a modo suo aiuta a risolvere i problemi più grossi.

Tarzan [7]


America: amore e nostalgia

Gli italiani del meridione cercano lavoro all’estero: il novanta per cento delle famiglie di Gaeta, il paese dove sono nato e vissuto per un pezzetto della mia giovinezza, ha un emigrato in America o in Venezuela. Sono anni duri per mettere insieme pranzo e cena e molti preferiscono attraversare l’oceano per andare a cercare fortuna in quella terra tutta luci e magia, che elargisce dollari verdi agli uomini di buona volontà. Il viaggio, in terza classe, si affronta con la nave, e l’imbarco, tra lacrime e sventolio di fazzoletti, avviene a Napoli.

partenze per l'america sulla copertina di walter molino [8]

I pescatori gaetani raggiungono l’America attraversando l’oceano con le paranze, per continuare a fare i pescatori anche di là: un viaggio infinito a bordo di esili gusci di noci.

Era usanza che l’emigrato, quando “s’era aggiustato le ossa”, mandasse a casa i dollari e il famoso pacco, in cui c’era tutto quello che da noi costituiva abbondanza. Ero bambino e ricordo Prato, il postino, che fischiava e annunciava l’arrivo del “pacco dall’America”; allora tutta la famiglia e il vicinato si passavano la voce e si riunivano intorno al tavolo dove troneggiava la grossa scatola di cartone legata con lo spago e piena di timbri e cera lacca. Dentro c’erano cose meravigliose: scatolette di carne e di pesce, le caramelle col buco, il chewing gum (che chiamavamo “gomma americana”), rotoli di cotone di diversi chilometri, “stacchi” di stoffa sempre molto colorata (appunto all’americana), cioccolato, fotografie (a colori! Mai viste prima!) della Statua della Libertà, dei grattacieli, di smisurate automobili con la coda, dello sconosciuto frigorifero e… della fidanzata americana, sorridente e un po’ sciacquetta, ma in carne e rotondetta, perché laggiù erano tutti ben nutriti. Quel pacco era il simbolo di una svolta di vita, l’effetto di un colpo di bacchetta magica che aveva trasformato un sogno in realtà, il muto testimone di un altro mondo, lontano come la Luna. Ricordo un pacco di zia Michelina, sorella di mia nonna materna: dentro c’era anche una valigetta giocattolo da medico per me, con tutto l’occorrente, compresi i ferri chirurgici, di una strana sostanza pieghevole, leggera e gialla. Fu così che conoscemmo la plastica. Gli attrezzi della mia borsa da medico si piegavano ma non si rompevano, a differenza di quanto accadeva con il celluloide, l’antenato della plastica, che si spezzava con facilità ed era fortemente infiammabile.

l'america [9]

«…E ce ne costa lacreme ’st’America…» sono le accorate parole di una canzone: gli emigrati si struggevano di nostalgia e si sognavano il paese loro. Il fratello di Civitina Vaudo scrisse che chissà che cosa avrebbe dato per sentire ancora il sapore delle triglie del paese suo. Civitina non mise tempo in mezzo e tutto il vicinato stette a guardare: comperò un paio di chili di triglie, di quelle belle e grosse, accese la “fornacella” nel “vico” e le arrostì, poi si fece dare un paio di fogli di carta oleata da Gonzales, che aveva la bottega del caffè in via Indipendenza, le incartò, le depose con delicatezza in una scatola da scarpe come se si trattasse di una reliquia, e le affidò a un parente che ripartiva per l’America, ma questa volta con l’aeroplano, perché laggiù “aveva fatto i soldi”. Un mese dopo giunse la lettera di ringraziamento (l’inequivocabile lettera dall’America in carta velina, nella busta leggerissima con il bordo colorato, perché meno pesava, meno costava il francobollo) e Civitina la lesse dal balcone a tutto il vicinato: «Grazie per le triglie, me le sono mangiate mentre pensavo al paese mio». Così c’era scritto.

[Cinquant’anni da raccontare (2) continua]

 

Appendice (di Sandro Russo)

Affascinante l’operazione recupero della memoria proposta qui da Adriano Madonna per piccoli spot separati, che mi ha rimandato dritto dritto al bel romanzo di Umberto Eco “La misteriosa fiamma della regina Loana” (Bompiani; 2004).

La nostra memoria è un forziere favoloso da cui possiamo (qualche volta) recuperare i pezzi che ci siamo persi nell’accidentata corsa della vita…

Eco.Loana Book [10]

Cino e Franco. La misteriosa fiamma della regina Loana [11]