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Il viaggio

di Adriano Madonna treno a vapore [1]

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Gli alberi si rincorrevano sull’argine del canale mentre il treno penetrava la nebbia di un novembre uggioso.
La campagna intorno era immobile in un incantesimo che aveva scolpito nell’aria fredda le piccole case e il fumo dei camini.

Mi piaceva viaggiare in treno, d’inverno in special modo: mi sembrava che il mondo mi sfilasse accanto; un mondo senza rumori, con le sue immagini di film muto e la malinconia di un ricordo dalle tinte sbiadite. Il ritmo cadenzato delle ruote sui binari imponeva il suo dondolante andare; sembrava che l’esistenza degli uomini e delle cose si articolasse intorno al cardine di quella nenia, come se essa fosse un gigantesco orologio che contava il tempo della vita.

Cinque anni prima avevo fatto il viaggio in treno più affascinante della mia vita: ero partito da un piccolo paese nei pressi di Hokou, in Cina, senza sapere dove sarei giunto. Ero entrato nel vagone assecondando un  istinto naturale, una voce interiore, quasi un comando che a volte spinge gli uomini a certe imprese che non hanno nulla di logico e di ragionato.
Un binario si perdeva verso nord. Lontano, le rotaie si congiungevano ed erano inghiottite da un vapore denso che saliva dalla terra.
Laggiù c’era la Mongolia, il segreto di una favola vera che aveva stregato gli uomini d’avventura sin dai tempi di Marco Polo.

Il piccolo treno ansimante, con la locomotiva a carbone impennacchiata di sbuffi bianchi, si dirigeva proprio là.
Mi sedetti su una panca di legno e di colpo uomini e donne, piccoli e gialli, si dettero a osservarmi con palese curiosità. Mille cose erano appoggiate sul pavimento e stipate sulle reticelle. Tra le grandi sporte di giunchi intrecciati, raggomitolati su vecchi tappeti e stuoie di paglia, dormivano i bambini, con le gote rosse e le labbra dischiuse nel respiro del sonno profondo.
Davanti a me, un uomo magro come uno stecco s’arrotolò una presa di tabacco in un rettangolo di carta gialla e involò grandi boccate dall’odore penetrante. Accanto, due vecchi, forse marito e moglie, sonnecchiavano con il mento abbandonato sul petto. Osservai le loro mani consumate e grinzose, le unghie contorte che sembravano voler schizzare fuori dalla pelle, la schiena curva sotto il peso della miseria e dell’età, l’espressione rassegnata del viso, anche se gli occhi erano chiusi.

anziana cinese [2]

Fuori era tutto uguale: una steppa infinita scorreva davanti al finestrino, talmente monotona e monocorde che il treno sembrava fermo.
Di tanto in tanto, lo scheletro di qualche albero o un minuscolo abituro che si sollevava di una spanna dalla terra gelata, davano la percezione del movimento.
Mi sembrava che laggiù terminasse il mondo, che per una sorta di magia il treno avesse scantonato dalla dimensione terrestre e continuasse a correre su un pianeta lontano e senza vita.
Fu, dunque, una cosa straordinaria quando sentii la locomotiva rallentare e poi lo stridio dei freni sulle ruote bagnate.
Mi affacciai al finestrino e vidi un grande serbatoio di ferro arrugginito con un lungo tubo in cima, certamente destinato ad “abbeverare” la locomotiva, e quattro case basse e vecchie, ma, come mi sembrò, solide e ben tenute.

Lo stesso istinto che mi aveva portato a salire sul treno, questa volta mi suggerì di scendere.

La locomotiva ripartì ansando e io restai immobile, con la mia borsa appesa alla spalla, al centro di una pianura senza fine.
A cinquanta metri da me, un uomo mi osservava.

vecchio cinese 1 [3]
Era basso e tarchiato, aveva il viso con gli zigomi sporgenti e portava un cappello in testa con una striscia rossa sopra la visiera: era un poliziotto e mi scrutava con curiosità e diffidenza, così mi sembrava.
Mi incamminai verso di lui, poi, quando lo raggiunsi, gli tesi la mano e gli sorrisi. Il poliziotto restò immobile e continuò ad osservarmi, allora io mi tolsi la borsa dalla spalla, la aprii, gli mostrai le macchine fotografiche e gliela porsi.
Il poliziotto la prese, la guardò, poi me la restituì senza una parola. Giunsi le mani, come avevo visto fare in Cina, e accennai un breve inchino del capo. Il gesto fu gradito.
Il poliziotto disse qualcosa a gran voce e di lì a pochi attimi dalle case piccole e basse comparvero uomini e donne.

Erano tutti vecchi, ciò mi colpì, con la pelle cotta e arsa, e mi sorridevano, con rughe profonde e lunghe come artigli di rapace che si dilatavano ai lati delle strette fessure degli occhi. Ormai il ghiaccio era rotto e io provavo una singolare emozione nel trovarmi laggiù, ma mi sentivo disteso e sereno in quell’angolo sperduto della Terra del quale forse nessuno conosceva l’esistenza, anche se mi sembrava di essere giunto sulla Luna.

contadini mongoli [4]

Da una tasca della borsa tirai fuori una carta geografica e l’aprii alla pagina del planisfero.
Tutti fecero capannello intorno a me, compreso il poliziotto: io indicai la Cina con un dito e tutti assentirono, poi con lo stesso dito percorsi la carta lentamente, fino a raggiungere l’Italia. Mi misi una mano sul petto e appoggiai nuovamente il dito sull’Italia, battendolo con decisione sulla carta geografica.
Tutti adesso sorridevano, perché avevano capito che quella sorta di marziano giungeva da mondi lontani. Ma nella loro semplicità si erano anche resi conto che un uomo che giunge da tanto lontano ha diritto a un’ospitalità particolare, e mi accompagnarono, quasi spingendomi, verso un uscio piccolo, e da qui in uno stanzone metà di legno e metà di muratura.
Mi fecero accomodare su un  tappeto e una donna vecchissima mi portò del riso, acqua e qualcosa di indefinibile che aveva la consistenza del pane raffermo e odore di radici fresche.
Cominciai a mangiare lentamente. Al primo boccone, i miei ospiti si aprirono in larghi sorrisi e accennarono brevi inchini di compiacimento. Il direttore del comitato di ricevimento sembrava essere proprio il poliziotto, che, notai, si dedicava solo a me, mentre agli altri si rivolgeva in maniera piuttosto secca, anche se questo suo modo di fare non dava la percezione di veri e propri comandi.

Intanto, un pensiero si faceva strada nella mia mente: «Quando passerà un treno di ritorno? Ma ci sarà mai, quaggiù, un treno che ritorna? Il binario è uno solo…». Mi feci capire a gesti, al che il poliziotto afferrò il mio polso sinistro, indicò le ore quattro sull’orologio e poi fece un gesto che indovinai significasse l’indomani pomeriggio: il giorno seguente, alle 16, sarebbe passato il treno di ritorno.

Da dove giungesse, mai lo seppi.

Quella sera, fu una vera sorpresa, nel piccolo villaggio si organizzò un  ricevimento in onore dello straniero, e divenni il polo centrale di attenzione delle poche anime che vivevano laggiù.
Un vecchio bianco con la barba lunga come un personaggio biblico suonò delle arie dolcissime con un violino, poi, con voce profonda, intonò un canto. Doveva trattarsi di qualcosa di toccante, perché gli uomini fissavano attenti il vecchio con sguardo rapito e le donne avevano gli occhi lucidi.

vecchia cinese [5]
L’unico che sembrava essere insensibile all’atmosfera che s’era creata nella grande rimessa dov’era stato organizzato il ricevimento era il poliziotto, che continuava a guardare ora me ora il fuoco che ardeva in un enorme camino. Il ciocco più grande, che sarebbe durato l’intera nottata, era una di quelle traverse dove si appoggiano i binari della strada ferrata, di legno grosso, duro e scuro, che il fuoco avvolgeva sprigionando un leggero odore di pece.
Il vecchio terminò di cantare e di suonare il violino, tutti assentirono con il capo in segno di approvazione, poi, quasi all’unisono, si voltarono dalla mia parte e mi guardarono. Per mostrare che avevo apprezzato l’esibizione del vecchio, ancora una volta giunsi le mani e chinai il capo verso di lui.
Quando la legna più piccola divenne brace, mentre la traversa continuava ad ardere in un canto del focolare, fu messa della carne a cuocere sui tizzoni, sistemata sopra una graticola di ferro, e presto un profumo penetrante invase la rimessa. Intanto, cominciarono a circolare delle bottiglie contenenti un liquore incolore come l’acqua, ma fortissimo. Questo riscaldò l’ambiente e al vecchio si unirono altre persone in un coro suggestivo. Tutti ridevano, e il vecchio dalla barba bianca ci dava sotto con il suo violino: aveva abbandonato quei melanconici canti accorati ed era passato a frizzanti ballabili, mostrando una bravura incredibile nell’uso del suo strumento.

vecchio cinese [6]

L’atmosfera era diventata quella di una festa.
L’unico rimasto impassibile era il poliziotto, che si guardava intorno come se tutto ciò non lo riguardasse. Era evidente che egli si trovava là solo per controllare, come il proprio grado e la sua funzione gli imponevano.
Quando l’allegra musica terminò, mi venne il desiderio di esibirmi anch’io, di portare laggiù qualcosa del mio mondo, e così, con la mia voce da tenore dilettante intonai “Recondita armonia”. Il liquore che avevo bevuto mi aveva corroborato l’anima e la gola, e la voce mi uscì bella rotonda e piena e rimbalzò sotto le travi del vecchio tetto.
I cinesi mi osservavano a bocca aperta e forse anche il poliziotto restò un attimo suggestionato da questa mia iniziativa, tant’è che per un istante perse la propria flemma d’acciaio: si tolse il cappello e si grattò la testa, ma subito se lo rimise, si aggiustò il cinturone e si ricompose nel suo atteggiamento di ghiaccio.
I cinesi mi abbracciarono quando terminai con quell’acuto “…Tosca tu sei”  che tirai fuori proprio con l’ultima goccia d’aria che mi restava nei polmoni. Gli uomini del villaggio sorrisero e mi vennero incontro con grandi inchini, e anche il poliziotto dette un segno di apprezzamento sollevando le braccia e agitandole verso di me.

Non saprei dire a quale ora della notte la festa terminò, né quando io sprofondai nel sonno.

Mi svegliai al mattino, raggomitolato su un tappeto con una coperta addosso, accanto al focolare. La traversa di legno era diventata una spada ardente e sottile su un manto di cenere bianca. Mi alzai in piedi tra acuti dolori che mi attanagliavano gambe, schiena e braccia, aprii la porta e uscii.
Faceva freddo, la terra era gelata, tutt’intorno c’era un silenzio irreale, ma d’un tratto sentii dei rumori secchi che sembravano giungere da lontano: qualcosa scivolava sul terreno. Girai intorno alla rimessa e vidi il poliziotto che lavorava la terra con un aratro tirato da un bue enorme: la terra gelata scoppiava contro il vomere come l’infrangersi di lastre di cristallo. Il poliziotto s’era tolta la divisa e aveva indossato una vecchia tuta da lavoro, ma continuava a portare il cappello sulla testa.
Quando mi vide mi fece un breve saluto e continuò ad arare.
Trascorsi la mattinata continuando a guardare il poliziotto che lavorava la terra e non avrei potuto fare altro, perché tutti quelli del villaggio erano  scomparsi.

contadino al lavoro [7]
Alle quattro del pomeriggio vidi un nero serpente con un pennacchio bianco materializzarsi all’orizzonte: il treno arrivava puntuale come il destino. Radunai le mie poche cose nella borsa e salii sul predellino del vagone, ma mi sentii tirare il giaccone di pelle: il poliziotto mi guardò intensamente, si mise una mano sul petto e disse concitato: «Yenka! Yenka!» Il poliziotto si chiamava Yenka, voleva che lo sapessi e che lo ricordassi. Poi mi abbracciò e gli vidi gli occhi lucidi sotto la visiera con la striscia rossa.

Il treno si mosse e il poliziotto restò lì, impalato, a guardarmi mentre me ne andavo, poi sollevò un braccio e agitò la mano che stringeva il cappello.
«Anche i poliziotti della Cina rossa hanno un cuore» pensai, e girai lo sguardo su quella steppa piatta e tutta uguale che sembrava perdersi ai confini del mondo, dove qualcuno aveva il coraggio e la forza di sopravvivere. Il treno correva sulla terra gelata.

treno [8]

 

Immagine di copertina. La pesca notturna col cormorano sul fiume Li (Li Jiang). Le tipiche montagne con i denti a sega fanno parte del paesaggio dei dintorni di Guilin (regione del Guangxi Zhuang, nella Cina meridionale)

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[Estratto dal libro di A. Madonna: “Appunti di viaggio, momenti di vita in giro per il mondo”]