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Mercoledì, 7 gennaio 2015

di Rosanna Conte
Manifestazione a Parigi [1]

 

Ci sono dei giorni in cui sei catapultato fuori dal corso quotidiano della tua vita, che tu lo voglia o no.

Il 7 gennaio, in pieno lutto cittadino per la morte di Pino Daniele, arriva la notizia della strage di Parigi che cancella con la sua orribile tragicità la mestizia scaturita dalla riflessione che Napoli aveva perso uno dei suoi figli più amati ed illustri.
L’afasia può farla da padrona.
I due eventi non sono paragonabili e l’accostamento è dovuto solo alla fortuita vicinanza temporale.

Sebbene sia una grande perdita, per la cultura in generale e per la musica in particolare, fortemente sentita nella sua città natale, dove si è formata la sua genialità, e sebbene sia stata avvertita in maniera dolorosa da coloro che ne amavano ad apprezzavano le capacità artistiche, la morte di Pino Daniele non può non essere inserita nella normalità della vita. Certo, era ancora giovane, molto ancora poteva dare di sé e, forse, ricorrendo al soccorso locale invece di scegliere di andare a Roma, avrebbe potuto restare in vita; ma una morte legata alla debolezza cardiaca è vista pur sempre come un evento previsto in natura, anche se lascia addolorati i vivi.

Quello che invece scardina le coordinate in cui la vita, pur con i suoi dolori e le sue amare sorprese, scorre naturalmente, è una strage.
E’ del tutto incomprensibile che qualcuno abbia premeditato e portato a termine l’uccisione di uno o di tanti esseri umani perseguendo una volontà umana.

Questo lascia interdetti e dà luogo a reazioni individuali legate al carattere di ognuno di noi. C’è chi pensa che qualsiasi cosa dica, sia del tutto inadeguata; chi, immediatamente, urla contro l’inciviltà o contro il fantasma del nemico che l’immaginario della sua coscienza si porta dentro, qualunque esso sia; c’è chi si ripiega su se stesso, chi invoca la misericordia di Dio o la sua giustizia, chi sbraita contro i politici e le forze di polizia e così via.
E’ il momento in cui si chiedono provvedimenti forti. Il mio idraulico, poco fa, invocava la pena di morte e non riusciva a sentire la mia osservazione che la pena di morte non ha mai fermato nessuno intenzionato a fare le stragi: lui l’avvertiva come punizione e non come intimidazione preventiva.

Già, perché, quando un fatto assume contorni di una gravità che esonda dai nostri parametri, non abbiamo gli strumenti per analizzarlo e capirlo.

Ieri sera, in un dibattito in RAI, c’era chi parlava di atto di guerra e chi, invece, di terrorismo e la giornalista Lucia Annunziata diceva che era fondamentale concordare sull’analisi, per poter impostare la re-azione ad eventuali altri attacchi.

E’ una logica così semplice eppure così poco praticata.
L’indignazione, l’orrore, la paura o qualsiasi altro sentimento scatenato dalla strage di Parigi lasciano poco spazio alla fredda analisi che è l’unico strumento per arginare casi del genere.

Certo nei centri decisionali politici e militari, per non parlare dei servizi segreti, si lavora in questo senso, ma nei mass media, per strada, fra amici e conoscenti spesso prevale l’invettiva, l’odio, l’esaltazione del decisionismo punitivo che va a colpire anche l’innocente.

Ed è questa la voce che trascina le masse: chi non può decidere ed ha paura, chi coglie l’occasione per veder confermata quella che ritiene la propria superiorità civile e chi, viceversa, la coglie per veder confermata l’inferiorità altrui; chi non ha nemmeno contezza del fatto, ma ne avverte una ricaduta pericolosa su di sé dalle reazioni altrui. Tutti costoro ed altri non hanno tempo, voglia e strumenti per poter analizzare un fatto tanto grave ed ingrossano la voce a loro più vicina.

L'abbraccio di Napoli a Pino Daniele [2]

Al funerale di Pino Daniele in Piazza del Plebiscito, mercoledì sera, invece solo il pianto era contagioso e si trasmetteva con le parole delle sue canzoni, con l’applauso. Con un eguale sentimento di affetto, gratitudine e dolore, le centomila persone lì presenti si sentivano affratellate nella sofferenza e volevano trasmetterla ai bambini che avevano portato con sé, agli extracomunitari che gironzolavano lì intorno per vendere la loro mercanzia, ai ragazzini ancora troppo acerbi per potersi consentire di soffrire per la perdita di un mito.
E’ stata una bella piazza, facile nel suo dispiegamento: non c’era nessuno da punire, nessuno da odiare e tutti erano pronti a partecipare al dolore.

Schiacciata in mezzo ai centomila, mi sono chiesta come avrebbero reagito se, mutando la causa del loro raduno, si fossero trovati lì per la strage di Parigi.
Avrebbero urlato all’unisono contro l’Islam o contro l’ISIS o contro l’extracomunitario, oppure avrebbero chiesto un più incisivo intervento legislativo europeo per tutelare la popolazione e prevenire simili attentati?

E’ difficile pretendere che la massa agisca con logica – ce lo insegnava già Manzoni nei Promessi Sposi, quando si parlava solo di folla e non ancora di massa -; in un corpo informe e in movimento, l’imitazione e l’emulazione prendono il sopravvento proprio perché riproducono gesti senza la necessità di addurre motivazioni.

In realtà anche coloro che hanno ucciso a Parigi sono stati spinti dall’imitazione e dall’emulazione in nome di un credo religioso integralista, simile all’integralismo della santa inquisizione di seicentesca memoria. Se avessero dato spazio alla riflessione e al confronto, avrebbero scoperto che la loro religione si è allontanata di parecchio da quella originale; che la sovrastruttura politica che li gestisce, li utilizza come strumenti per realizzare una potenza in cui la dignità umana non è contemplata e in cui loro sono un piccolo ingranaggio che gira con la macchina.

Ma come si fa a fermare una massa di fanatici che non accettano il dialogo? Con altre masse di fanatici che pensano di stare dalla parte della ragione e che sia giusto decapitare gli altri? Di questo passo si arriva solo ad un atroce scontro fra barbari.

Forse è il caso di pensare a mettere da parte gli odi e le certezze di superiorità, di concentrarsi su una conoscenza più approfondita del fenomeno ormai perdurante dei terroristi islamici europei, di collaborare a livello politico europeo e non per creare una linea di difesa della popolazione e di attacco alle schegge impazzite che, ripudiando la cultura occidentale, pensano di aver conquistato un mondo superiore aderendo ad un surrogato velenoso dell’Islam.

Al di là degli orrori e dell’afasia o dell’urlo che li accompagna, il momento della razionalità deve essere quello preminente, una razionalità avulsa da ideologie, aperta alla collaborazione, pronta alla raccolta dei dati più disparati e alla loro rielaborazione in modo da prospettare azioni risolutive di lunga durata ispirate alla convivenza pacifica.

Saremo, noi europei, in grado di farlo?