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Di nasse e d’altre cose. Ne parliamo con Peppe Sandolo.di Vincenzo Di Fazio (Enzo)
C’è una generazione, quella nata a cavallo dell’ultima guerra, che ha vissuto buona parte della propria infanzia appresso ai propri padri. Per imparare il mestiere, per alleggerire le fatiche delle madri o, semplicemente, perché così si faceva. Peppe, figlio di pescatore, a 6 anni già andava per mare, ma lontano da Ponza, nelle acque dell’ isola di Pianosa. Ne parliamo a casa sua in uno dei freddi pomeriggi appena trascorsi quando l’autunno, deciso, ha ormai dato le consegne all’ inverno. Quando ci incontriamo troviamo sempre il modo di parlare di Ponza, di mare, di pesca, di attrezzature per pescare, di detti isolani, di aneddoti che tira fuori straordinariamente da quel cilindro magico che è la sua poderosa memoria. “Me so sussute vive stammatine, E subito dopo ha citato a memoria due detti, entrambi elogio della saggezza antica. Il primo – mi ricorda – lo dicevano soprattutto le mamme, le zie, insomma le donne anziane, per mettere in guardia le ragazze dai corteggiamenti dei militi negli anni in cui Ponza era da questi frequentata: “So’ bettune ca lucene Il secondo lo si sentiva alle epoche delle vendemmie: “Quanne se zappe e se pote E potrebbe continuare all’infinito, Peppe, se non lo riportassi sulla strada della pesca di cui voglio sentirmi raccontare. “La prima volta avevo 5 o 6 anni” – mi dice – “era d’estate, ma non andai con mio padre. Mi affidarono ad una grossa barca venuta a Ponza dall’isola d’Elba, in occasione della festa di san Silverio. Dovevo raggiungere mio zio Silverio (Silverio Feola, detto Chiaravalle, fratello di Totonne Primme) a Capraia dove aveva il gozzo. Questo era una barca lunga 7 metri, costruita a “La Galite”, tipo “spagnoletta”, panciuta con poco pescaggio. Si chiamava “Maria Concetta” con un motore entrobordo Bolinder di produzione svedese. Si pescava con le “rezzelle”. Lo interrompo per chiedergli quale fosse il suo compito. Una volta prese la scossa con la tremola, un’altra volta si conficcò un amo nel dito. Per toglierlo intervenne, sotto lo sguardo preoccupato del padre, lo zio Peppe (Peppe ‘i Carrocchia) che usò come bisturi il rasoio dei barbieri fatto bollire preventivamente per essere disinfettato. Condotto poi a terra, all’isola di Pianosa gli venne praticata l’antitetanica dal medico del posto, un certo dr. Coppa, guarda caso originario di Ponza. Una conferma di come i ponzesi si trovassero, ieri come oggi, dappertutto sempre disponibili a venire incontro ai bisogni dei propri compaesani. Tra un pasticcio e l’altro passò la prima estate e gli era capitato, in più di un’occasione, di pensare con nostalgia ai giochi d’a curteglia, ma l’arte di andar per mare l’affascinava e… nei momenti “bui”, lo consolava la marmellata di amarene. Eh sì, proprio la marmellata di amarene… Ricorda che zio Silverio lo prendeva in giro. Quel tempo non trascorse vano, fu scuola di vita e non ci furono migliori lezioni che apprendere le cose osservando la manualità dei grandi. Il remmàge era la cordicella (con l’esca appesa) che, tesa all’interno della nassa, veniva legata in due punti opposti appena un palmo dopo l’imboccatura. Era fatta di filamenti di cocco ma si utilizzava anche lo strame che si trovava in grandi quantità a Zannone. La pesca più redditizia era quella alle aragoste e la si praticava con una “patèrne” di nasse. La patèrne si componeva di dodici nasse tenute legate l’una l’altra in maniera equidistante ed in modo da coprire un’area di fondale lunga più o meno 150 metri. Venivano calate ad una profondità di 50/60 metri e segnalate a galla con i “petàgni” di sughero, posti agli inizi ed alla fine della “patèrne”. Per tenere ferme le nasse sui fondali, all’ estremità delle due corde, cui erano legate la prima e l’ultima nassa, veniva posta una pietra del peso di 8/10 chili, la cosiddetta “màzzere”. “Dodici nasse sono tante – osservo – come si faceva a tenerle a bordo senza correre il rischio che cadessero in acqua?” Peppe, sorridendo, mi dice che la “Vulcania” ne caricava fino a 48, cioè 4 “patèrne”. In genere, per recuperare spazio, si tenevano separati “i scuorze” (le strutture esterne) dalle “cape” (le strutture interne), in modo che potessero essere più facilmente sovrapposte. “Una parte della prua era adibita a dormitorio; vi trovavano posto fino a 4 persone; non c’erano materassi ma solo qualche trapuntino. Agli inizi io mi arrotolavo in una coperta e come cuscino usavo un mazzo di reti senza “cuorcete” (sugherelli) e senza “chiumme” (piombo), praticamente una “rezza sciarmata”. “Non c’erano verricelli allora e le nasse venivano tirate su, in due, con la sola forza della braccia e puntando un piede contro la murata per dare vigore al corpo. Pesca faticosa ma per fortuna fruttuosa. A quei tempi– continua Peppe – le aragoste (quelle vive) venivano pagate 700 lire al chilo e vendute alla famiglia Chiaravalle a Marciana Marina, un comune dell’isola d’Elba. Per mantenerle vive venivano conservate in apposite casse a mare ed alimentate, all’occorrenza, con sarde, sauri o qualsiasi altro pesce azzurro “ “Buono il pescato, buona la paga” – mi viene spontaneo osservare. E’ calata la sera ed entrambi abbiamo degli impegni cui assolvere. Mi conduce nel garage per mostrarmi l’ultimo lavoro cui si sta dedicando, un “nassone” tutto di rami di mirto. Ne farà dono ad un pescatore di Le Forna che ha una grande barca con cui poterlo portare. Servirà ovviamente per pescare di tutto, ma non le aragoste. Usando come esca una pagnotta di pane nascosta in un sacchetto di iuta potrà prendere le occhiate. “Ho imparato verso i 27 anni; ho cominciato dal coperchio, il tappo, “u tumpàgne”, fatto di giunchi incrociati cinque a cinque. Ero a Brindisi e già lavoravo nella Guardia di Finanza. Ero agevolato perché conoscevo il posto ove trovare i giunchi. (Peppe Sandolo, con la sigaretta, su un gozzo nel porto di Ponza intorno agli anni ’70) Saluto Peppe e ci diamo appuntamento per un’altra chiacchierata per parlare di pesca a castardelli e a merluzzi ed… aprire nuovamente il cilindro dei ricordi. 1 commento per Di nasse e d’altre cose. Ne parliamo con Peppe Sandolo.Devi essere collegato per poter inserire un commento. |
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Il dottor Coppa citato nel pezzo era Dario Coppa, dentista, con casa e studio nella casa al piano superiore dell’emporio Musella; era amico di mio nonno, lo ricordo bene; a Pianosa fu medico degli ergastolani che costruirono per lui un tornio meccanico, poi passato a mio padre.