Ambiente e Natura

Piccolo mondo antico

di Mimma Califano
Il tempo che passa

 

I pomeriggi d’inverno… di mezzo secolo fa

In genere si iniziava dopo la festa dell’Immacolata e si continuava fino alla fine di febbraio. Durante il paio di settimane delle feste natalizie l’appuntamento era quasi quotidiano, altrimenti dipendeva un po’ dal tempo, o meglio dal cattivo tempo.

Nelle giornate di vento forte o di pioggia, era tacito che verso le tre del pomeriggio, dopo che le nostre mamme avevano rassettato la cucina e preparato la cena, ci si ritrovasse a’ casa d’a cumàre Maria o da zi’ Assuntina” o… ogni quartiere aveva il suo punto di incontro.
La padrona di casa metteva a disposizione la casa appunto, o meglio la cucina, che necessariamente doveva essere abbastanza capiente e con un grosso tavolo intorno al quale almeno una decina di persone si potevano sedere. Poteva capitare che in casa non ci fossero abbastanza sedie, allora una vicina andava a prenderne qualcuna a casa sua o per prevenirne l’eventuale necessità quelli che stavano più vicini arrivavano già con una o più sedie.
Quando poi i posti a sedere intorno al tavolo erano esauriti c’era anche chi stava in piedi in seconda fila ed ogni tanto si faceva il cambio con chi stava seduto.

Sotto al tavolo l’immancabile rasiér’ (braciere). Chi se lo ricorda? …quel bel recipiente di rame con due grosse maniglie laterali.

Braciere

La brace, utilizzando a’ muniglia o i craunelle, veniva preparata in tarda mattinata o addirittura subito dopo pranzo, per cercare di far durare il calore fino a sera. ’U rasiér’, appena la brace era al punto giusto, veniva sistemato all’interno di un’apposita base di legno – ’u ped’i rasiér’ – che lo teneva un po’ alzato da terra e contemporaneamente consentiva di poggiare i piedi sul suo bordo.
C’era sempre chi con la scusa di avere i piedi “ghiacciati” cercava di accaparrarselo. Ogni tanto qualcuno provvedeva a smuovere un po’ la brace per ravvivarne il calore e mettere qualche pezzetto di buccia di mandarino o arancia per profumare l’ambiente, o ad abbrustolire qualche fava che, denti permettendo, si sgranocchiava.

La padrona di casa per lo scomodo della luce elettrica che consumava, aveva diritto a nun mette ’a parata (non mettere la puntata), cinque o dieci lire a giro. A fine serata si poteva aver perso o vinto anche 50 lire o più. Cifre oggi irrisorie ma per l’epoca – inizi anni ’60 – un po’ di valore l’avevano.

A cosa si giocava? Quanti ricordano finett’, trentun’, domino, sette e miezz’’A tombola era d’obbligo il pomeriggio di Natale o dell’ultimo dell’anno.

Tombola

Quando si giocava a tombola il “cartellone” con il relativo canestrello per l’estrazione dei numeri, era un privilegio riservato a chi più conosceva i termini della tombola napoletana. Poteva capitare di non sentire numeri ma solo il loro significato secondo ‘la smorfia’ dei numeri del Lotto: ’a figliole… ’a paura… ’i cosce stort’ dall’uommene… Natale… San Silverie… ’a man’…etc.
…E poi una voce: Basta a mme! Terne … Quaterne… Tumbulone!

Ogni tanto i fagioli o i pezzetti di buccia di fava arrostiti o quelli dei mandarini si spostavano dalle caselle allora si allungava il collo sulle cartelle delle vicine per capire quale numero aspettavano.

Noi bambini avevamo la pretesa di partecipare al gioco, ma le mamme in genere non erano d’accordo; allora interveniva la nonna: “Gioia ’i nonna, vien cca’, e pazzìe insiem’ a  mme!
Altre volte stanchi di non essere presi abbastanza in considerazione e se c’era spazio sufficiente, noi bambini ci mettevamo a giocare per i fatti nostri, o imitando i grandi o inventandoci storie fantastiche tutte nostre.

Verso le sei – sette, un po’ prima che si smettesse di giocare arrivava alla spicciolata qualche papà a recuperare la famiglia. Anche loro erano stati a farsi la partita o a guardare altri giocare, nei diversi bar aperti. Giochi da uomini erano ’a maniglia, tressette a perde, briscola. La posta per quelle giocate poteva essere un caffè, dei cioccolatini/caramelle, a volte un bicchierino.

Giochi di carte
Proprio nella speranza di avere qualcosa di buono, appena arrivava il proprio papà, la prima domanda era: È vinciùte, che m’è purtate?
Con l’arrivo dei padri, si ravvivava l’atmosfera con scambi di battute e commenti, si apprendeva qualche novità appena sentita nel bar. Poi i cappotti, scialli, l’immancabile lampadina e si rientrava a casa, salutando i vicini man mano che questi raggiungevano le loro abitazioni .

Era una quotidianità fatta di piccole cose, si viveva del necessario e le novità – il cappotto nuovo, un giocattolo, la televisione – erano apprezzate ed accolte con gioia; per niente date per scontate o pretese.

Non sempre i rapporti tra le persone erano sereni. Invidie, cattiverie, rivalità, soprusi, litigi non mancavano neanche allora, eppure avevamo quel senso di appartenenza e di condivisione di una quantità di momenti collettivi che ci consentiva di poter affermare che eravamo una comunità.
La domanda è: seppur in tempi cambiati e con modalità diverse, lo siamo ancora?

Sfiorare le cose

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