Sull’onda delle cronache del Columbus Day, al quale ha partecipato la comunità ponzese di New York stretta attorno a San Silverio, è nato sul nostro sito un interessante dibattito innescato da Vincenzo Ambrosino che merita di essere approfondito.
Si chiede Vincenzo: i ponzesi sono così contorti e “difficili” in patria quanto virtuosi all’estero? Cerchiamo di procedere con ordine.
I nostri emigrati, salvo qualche eccezione, hanno dovuto lasciare Ponza per necessità, alla ricerca di lavoro e di una vita migliore. Lo sradicamento che hanno dovuto subire ha segnato profondamente le loro esistenze. Affrontare, poi, un mondo nuovo, lingue sconosciute, senza una adeguata preparazione e soprattutto senza che questa sia stata una libera scelta, ha lasciato ferite difficilmente rimarginabili. E che riappare evidente, pur nelle festose occasioni di ritorno all’isola.
Il legame con Ponza, che resta fortissimo, appare avvelenato; come quello di un figlio allontanato a forza dai propri genitori. Questo li ha fatti soffrire e li fa soffrire, quasi ‘cristallizzando’ la loro memoria al momento della partenza. Tutti, infatti, hanno il ricordo della loro isola com’era allora, e ne sentono sì le notizie recenti, ma in profondità non ne recepiscono i cambiamenti. In quest’ottica appaiono più che emigrati, veri esiliati che, per anni, se non per tutta la vita, sognano il ritorno. Un ritorno che ha per molti anche il sapore di un riscatto.
I nostri emigrati, una volta in terra straniera, a sentire numerose testimonianze, hanno fortificato la loro appartenenza alla nostra isola, favorendo anche una forte solidarietà, anche a reciproca difesa nell’affrontare l’ignoto. In questo processo la fede religiosa e la venerazione di San Silverio hanno fatto da collante. Al punto che, il Santuario che gli è stato dedicato a New York, ripropone con poetica tenerezza i nomi di vie, luoghi e angoli dell’isola.
Nei quartieri scelti sin dalle prime emigrazioni, intere strade sono abitate quasi solo da ponzesi. E questo per quanto riguarda la parte positiva.
A raccogliere le testimonianze di decine e di decine di emigrati però, allo stesso modo gli isolani hanno portato con loro non solo i pregi, ma anche i difetti. Assieme alla grande laboriosità, intelligenza, creatività e ambizione, mostrano anche altri aspetti come l’individualismo esasperato, l’invidia, la litigiosità. Basterebbe dare una scorsa alle corrispondenze tra le due sponde, per leggere come le problematiche degli isolani si rispecchino in quelle degli emigrati. Nulla appare cambiato nella sostanza.
Si possono però trovare delle differenze.
In una società strutturata e fortemente pragmatica come quella statunitense, dove i diritti sono diritti e i doveri, soprattutto, sono doveri, non trovano spazio deroghe o ne trovano molto meno. Nel microcosmo isolano, invece, dove ogni parola sottintende una intenzione e un retro-pensiero e rinvia ad accadimenti anche di decenni prima, tutto avviene in maniera più lenta e contorta. Ma questo vale anche per gran parte d’Italia, dove complessità e lentezza del sistema frenano il normale sviluppo degli eventi.
Ognuno di noi si sente “il padrone” dell’isola, percependo poco il senso civico di appartenenza che sentiamo solo per la famiglia di provenienza; e non sempre; poco attenti ai bisogni degli altri a meno che non coincidano con i propri. In questo scenario la conflittualità appare inevitabile.
A sentire i vecchi le cose a Ponza non sono andate sempre così. Fino ad almeno mezzo secolo fa, la solidarietà era una virtù molto praticata. Lo scambio reciproco di lavori tra vicini era una cosa comune. I contrasti, e ve ne erano tantissimi, erano suscitati in gran parte dalla penuria. I rapporti erano di collaborazione perché tutti avevano bisogno di tutti.
Questo senso di unità è andato allentandosi con il miglioramento dell’economia e la diffusione del benessere. Il primato del denaro ha oscurato tutte le altre priorità. La crescita repentina, senza formazione professionale e civile, ha eletto il primato economico a unico status sociale.
Ricordo con chiarezza i nostri vecchi maestri lamentarsi della poca educazione dei nuovi arricchiti e della scarsa considerazione che avevano della cultura. Le mie sembrano considerazioni spietate, ma vanno affrontate e approfondite, se vogliamo contribuire ad un possibile miglioramento sociale e culturale di Ponza.
Agli emigrati – o più precisamente ripeto agli esiliati, considerando i loro ostinati, tenaci e accorati ritorni all’isola – va senz’altro il merito di aver affrontato e vinto nuove sfide, avendo saputo superare lotte durissime per potersi affermare. Ad essi dovremmo prestare massima attenzione e, lo scrivo da anni, spingerli a tornare e ad investire le loro intelligenze e le loro risorse economiche nella nostra isola.
La nostalgia e il legame con Ponza costituiscono un’attrazione fatale e una garanzia che chi vi torna, lo fa per dare un segno positivo.
Qualche anno fa, sull’onda della buona accoglienza che ebbe la mostra “Ri-conoscere Ponza” – era il 2008 – molti emigrati che la visitarono, manifestarono l’intenzione di tornare e creare un centro per gli anziani.
Un progetto, tra i tanti possibili, che resta valido e che dovremmo favorire. Ne guadagneremmo tutti.
Statua all’Emigrante, nella Piazza del Comune di Colliano (SA)
vincenzo
31 Ottobre 2014 at 10:34
Già quando si prende la nave staccandosi dal porto di Ponza, i ponzesi si trovano a parlare con maggiore passione dei problemi comuni e più ci si allontana più si sente la nostalgia della comunicazione collaborativa che nell’isola non c’è.
Il clima sull’isola non favorisce il concetto di fiducia, non c’è fiducia tra gli isolani e quindi non si affida all’altro il proprio pensiero sincero ma al massimo si recita a soggetto.
Il ponzese è un uomo concreto, le chiacchiere sono inutili perché “i maccheroni riempiono la pancia” e poi le società buone, quelle che funzionano nel tempo sono quelle “costituite da un numero dispari di soci inferiore a 3”. Sono liberisti in economia ma è fondamentale che gli affari degli altri si sviluppino almeno ad “un palmo dal proprio deretano”.
Questa cultura delle poche chiacchiere, dell’estremo individualismo e del disinteresse sociale e civico è a mio avviso patrimonio del ponzese ereditato e acquisito, trasmesso da padre in figlio ma che si adatta e si evolve a contatto di un nuovo ambiente sociale.
Il nuovo ambiente sociale produce cambiamenti culturali e comportamentali creando una nuova “mentalità di sopravvivenza”; è proprio il caso dei ponzesi nel mondo che sembrano più emancipati e collaborativi, ma come si dice “il sangue non mente”.
Nell’isola persiste il ponzese autoctono e quindi quelli che definiamo difetti si conservano genuini e duraturi.