Paul Thek nasce a New York nel 1933.
Artista a tutto tondo, fin da giovanissimo subisce il fascino del vecchio continente, che lo porterà spesso a visitare l’Italia.
Durante uno di questi viaggi scopre il Cimitero dei Cappuccini a Palermo, rimanendone incantato. Scopre la possibilità di utilizzare i corpi umani (nel Cimitero dei Cappuccini vi sono molti corpi mummificati, a causa del particolare microclima dei sotterranei, che ricoprono intere pareti, quasi come decorazioni – NdA): “mi sono sentito straordinariamente sollevato e libero; mi piaceva che dei corpi fossero usati per decorare una stanza, come fossero fiori. Siamo in grado di accettare la cosa intellettualmente, ma accettarla emotivamente può essere una gioia”.
Probabilmente proprio in seguito a questo episodio, Thek inizia una produzione molto particolare: i Reliquari tecnologici, tra il 1964 ed il 1967.
Una di queste opere fu realizzata con la collaborazione di Andy Warhol: una delle famose scatole Brillo utilizzate da Warhol divenne un contenitore per un vero e proprio “pezzo di carne” realizzato da Thek in cera. Un accostamento in apparenza impossibile: la linearità, la riproduzione sotto certi aspetti rassicurante di un simbolo della società consumistica, con un oggetto carnale, “vero” e perciò sgradevole, quasi per definizione.
Questo periodo di Paul Thek dura poco: la sua opera “La tomba di un hippy” unico soggetto probabilmente realizzato per durare nel tempo, sancisce la fine di una età.
Dopo, infatti, c’è solo spazio per ambienti volutamente fragili ricchi di armamentari kitsch, accostamenti arditi, con il forte, indiscutibile senso della provvisorietà.
È un periodo creativo fatto di numerose mostre – a Lucerna, Amsterdam, Stoccolma – in giro per l’Europa. Esposizioni fatte, dicevamo, non per durare, in cui la vera essenza stava nella collaborazione di più artisti, ma anche di maestranze comuni. Il compito di Paul Thek era di dirigere, di dar vita e spessore ad oggetti in apparenza inanimati con il lavoro collettivo:
“…Fu un periodo meraviglioso quando nel marzo del 73 allestimmo Ark, Pyramid, Easter a Lucerna. Eravamo in tanti, più una classe della scuola di artigianato di Lucerna, che ci aiutò a trasformare 11 tonnellate di sabbia in un deserto illuminato da candele. Furono coinvolte molte persone della città delle luci. Thek mi aveva scritto lunghe lettere con liste di oggetti di cui aveva bisogno: funi, animali impagliati, specchi, betulle, un pianoforte, uno scheletro umano, una fontana. Il viavai era continuo, giorno e notte, si martellava, si cantava, si scriveva. Non si aveva mai l’impressione di trovarsi di fronte ad accessori di scena: ogni oggetto aveva un preciso valore posizionale all’interno dei locali. Era una scultura a più spazi di inedite qualità”.
[di Jean-Christophe Ammann, storico dell’arte svizzero, curatore del “Kunstmuseum” di Lucerna ai tempi in cui fu allestita una delle mostre di Thek ,
dal Catalogo della presentazione di una Mostra del ’92 realizzata al castello di Rivara (To)]
Ed è proprio in questa fase della parabola artistica ed umana che la vita di Paul Thek si intreccia con Ponza. Nella Ponza post-sessantotto, che ha già conosciuto i primi assaggi di quel turismo che diventerà poi di massa, dei primi artisti affascinati dalla natura selvaggia e primordiale dell’isola, finalmente libera dal marchio di luogo di pena. Sullo sfondo, l’eco di quella rivoluzione culturale ed ideologica che scardinerà dalle fondamenta la nostra struttura sociale.
Paul non è solo uno dei tanti visitatori di una Ponza che sta cambiando: Ponza diventa per anni la patria d’adozione dell’artista americano. Gli allestimenti delle sue opere “in progress” nelle principali città europee, dove più forte è il fermento culturale, vengono pensati ed organizzati ‘sugli Scotti’. Esiste una fitta corrispondenza tra Paul ed i suoi referenti, che indirizzano le loro missive a Mr. Paul Thek – via Scotti – Ponza.
Perché Ponza?
Forse perché un’isola rappresenta un rifugio, nella sua essenzialità. E nessuna isola è più autentica, lo sappiamo bene, di questo lembo di terra partorito dal fuoco, modellato dal vento, aspro come la vita di una comunità tenace che per secoli è sopravvissuta avvinghiata su se stessa, anche quando il destino portava lontano: spesso, ironia della sorte, proprio in quella New York da cui era fuggito Paul.
Un’isola-rifugio, per gli scampati al naufragio del mondo come doveva sentirsi Paul Thek dopo la tomba di un hippy, la sua morte. Ed il naufrago è essenziale per natura: pochi oggetti, i più semplici ed all’apparenza banali.
Paul approdò in una stanza a casa mia. La sua dimora era quanto di più spartano si possa immaginare: qualche sedia, un vecchio tavolo, una chitarra, un vecchio letto in ferro battuto. E poi colori ad olio, giornali, sigarette, carta igienica colorata (era di moda nei primi anni settanta), pezzi di legno levigati dal mare, plastilina.
Era questo l’armamentario di Paul in quegli anni.
Solo dopo ho scoperto che questi oggetti, con cui ricordo addobbammo un vecchio pero sul terrazzo di casa, non rappresentavano solo un gioco, ma erano l’eco delle realizzazioni mitteleuropee.
Mostre povere, a-temporali, utilizzabili e ri-utilizzabili in esposizioni volutamente non durature, fugaci, apparenti.
Come i dipinti su vecchi fogli di giornale.
Come le tele raffiguranti scorci degli Scotti.
Come i letti, gli armadi, i tavoli dipinti con le tonalità di blu di cui era capace Ponza, che Paul disseminò nelle abitazioni i cui abitò in quegli anni.
Perché in quegli anni il concetto che sviluppò Paul Thek a Ponza, e che tanto affascinò il bambino che ero, è che non contava la produzione artistica in quanto tale, ma solo come riflesso estemporaneo di una vita, questa sì, che doveva essere da artista.
In effetti quel vecchio pero non c’è più.
E non è più nemmeno Paul, morto di AIDS nell’88, precursore anche in questo.
Molti lo ricordano ancora, sugli Scotti: catturati, seppur provenendo da mondi diversi, dalla vitalità di un uomo che faceva della sua arte una ragione di vita.
Qualcosa rimane della sua sterminata produzione, anche a Ponza.
Opere secondo alcuni nate morte, come i suoi precedenti reliquari, eppure più vive di tante opere nate per durare.
Ma questo fa parte delle apparenti contraddizioni di Paul, che per un lungo periodo è stato volutamente dimenticato, perché artista scomodo, difficile, ‘politicamente scorretto’, diremmo oggi. Insomma non-catalogabile.
Ma per lo stesso motivo, assistiamo da qualche anno ad una sua sempre più crescente riscoperta. Perché, una volta tolta la patina del tempo in cui visse ed agì, esce fuori l’incessante ricerca dell’uomo, con le sue contraddizioni irrisolte, che fanno di Paul un cronista lucido, un occhio sul mondo assolutamente moderno.