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La Galite. L’isola clonata (1)

proposto da Vincenzo (Enzo) Di Fazio

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L’aver vissuto, negli anni passati, gran parte della mia vita lontano da Ponza mi ha portato nel tempo a conservare articoli, scritti, riveste, foto che avessero a che fare con l’isola. Un modo per vederla ogni tanto virtualmente, un modo per non dimenticarla.

Qualche giorno fa sistemando alcune riviste mi è capitata tra le mani una copia di “Viaggi” , un supplemento di ispirazione turistica che si aveva in regalo, fino a qualche anno fa, ogni giovedì (se non ricordo male) comprando il quotidiano “La Repubblica”. Mi salta agli occhi la scritta, in basso, “Tunisia, L’isola clonata. Una gemella di Ponza sulle coste africane” (il motivo per cui l’avevo conservata)
La rivista, del 2 settembre 2004, contiene un bel servizio sulla Galite che ho pensato di recuperare a beneficio dei lettori di Ponzaracconta.

Il Supplemento I Viaggi di Repubblica del 2 settembre 2004 [2]
La Galite l'isola clonata [3]

Della Galite sul sito si è ampiamente trattato (per leggerne basta inserire in “cerca nel sito” La Galite e si spalancherà l’accesso ad 8 pagine con tante foto e tante notizie interessanti).
L’articolo che propongo in effetti non svela nulla che già non si sappia ma è pur sempre un bella testimonianza su quest’ isola così simile a Ponza e sui suoi coloni più famosi, i pescatori ponzesi.
C’è nel servizio una divertente testimonianza del capitano Salvatore Conte, meglio conosciuto come “Berlinguer” fratello della nostra redattrice Rosanna. Sarebbe bello se la rilettura di questo articolo fungesse da stimolo per la rievocazione di altri ricordi legati al suo incontro con l’isola clonata.
Enzo.

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L’isola clonata

testo di Carlo Picozza

I “cloni” esistono anche in natura: l’isola di Ponza ha il suo doppio al largo delle coste tunisine.
E’ la Galite, avamposto nel mare nordafricano a oltre trenta miglia da Biserta e Tabarka.
Gemella per morfologia e pezzi di storia a quella laziale. I due arcipelaghi, il tunisino e l’italiano, hanno destini che si intersecano, segnando cultura e sentimenti delle genti che li abitano.

Così, alle sei isole delle Ponziane (Ponza, Palmarola, Zannone, Gavi, Ventotene e Santo Stefano) idealmente bisogna aggiungerne un’altra, la nordafricana Galite.

E’ la terra ponzese di adozione”, commenta Sergio D’Arco, componente di una delle famiglie di coloni marini che abitarono lo scoglio tunisino dalla fine dell’Ottocento.

“In quegli anni”, spiega il ponzese Silverio Corvisieri che alla sua terra e al suo mare ha dedicato un’attenta ricostruzione storica dal Regno borbonico ai giorni nostri (All’isola di Ponza. Il Mare, Libreria Internazionale), “ai miei conterranei imbarcati sulle coralline torresi (le barche dei pescatori di corallo di Torre del Greco) la Galita, con il suo seguito di isole minori, richiamava in modo irresistibile l’arcipelago ponziano. Le analogie erano in realtà impressionanti. Stessa origine vulcanica, stesse distanze dalla terraferma e dai porti più vicini (Biserta e Tabarka più o meno come Anzio e Gaeta, Cap Serrat come il Circeo), stessa scarsità di terre coltivabili e stessa necessità di scavare le terrazze sulle colline per piantare fichi, viti, ortaggi.

La dislocazione della Galita, del Galiton e dei Cani ricordava quella di Ponza, Palmarola e Zannone, anche se le dimensioni erano un po’ ridotte (e la distanza dai Cani maggiore). L’altezza delle colline era però identica; il susseguirsi di spiaggette, scogliere, piccole baie non poteva essere più familiare”.

Differenze importanti ce n’erano”, continua Corvisieri, “ma quasi tutte a vantaggio della Galita; innanzitutto nell’isola tunisina l’acqua, potabilissima, abbondava scaturendo da quattro sorgenti principali e da altre minori; in secondo luogo sotto il mare che circondava l’arcipelago tunisino si distendevano secche, per miglia e miglia, straordinariamente ricche di corallo e di aragoste; la Galita, infine, era completamente disabitata e trascurata da arabi e francesi. Unici inconvenienti erano la sua appartenenza alla Tunisia e la mancanza di un porto che rendeva ancora più fastidiose (e pericolose) le mareggiate, gli improvvisi colpi di vento, le forti correnti molto frequenti in quei paraggi. Ma quanto fascino doveva esercitare quell’isola sui pescatori ponzesi, in particolare su quelli più poveri che non potevano integrare, con la coltivazione di un campicello, i difficili e magri guadagni del corallo”.

Fu così, che a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, cominciarono a insediarsi in quella piccola Ponza, i primi coloni dediti alla pesca ma, soprattutto (e questo la dice lunga sulla natura terragnola dei nostri isolani), alle coltivazioni tipiche dei loro piccoli appezzamenti. Sulle stesse rotte di Fenici e Romani, i Ponzesi facevano scalo nell’isolotto di Carloforte, la Tabarka sarda, dove ancora c’è chi ricorda quella flotta di “venturieri” ponzo-galitesi.

casa tipica de La Galite [5]

Dagli anni Trenta ai primi dei Sessanta, riprende la voglia di Galite.

Mio nonno – racconta il capitano di lungo corso Salvatore Conte, detto “Berlinguer”, per via dei suoi orientamenti politici – ha partecipato alla seconda ondata di migrazioni verso l’arcipelago africano, oltre cento miglia a mezzogiorno della Sardegna. Partiva con il suo piccolo equipaggio di amici, a bordo di piccoli bastimenti con le stive forate che facevano da “acquario” alla manna di aragoste che pescavano anche a tre metri. Aragoste a pranzo e a cena. Ma, soprattutto, aragoste a colazione mangiavano i miei”.

E si sa, anche i piatti più prelibati, quando diventano abitudine, perdono i loro sapori fatti di desiderio. Ma tant’è: “Le aragoste che non sopravvivevano erano per la famiglia e l’equipaggio. Quel patriarca di mio nonno rimpinzava tutti”.

Ricorda ancora Conte: “Anche gli squali pescava e spesso, ero ancora bambino, lo accompagnavo in quelle che consideravo, e così ancora le ricordo, come avventure, grandi imprese di mare. Quei pescecani non li mangiavamo però. Né noi né alcun altro ponzese. Partivano alla volta di Firenze dove forse, tagliati in trance e conditi con capperi e pomodoro, venivano spacciati per pescispada.

Quando raccontavo ai miei compagni dell’Istituto nautico di Procida degli squali, non volevano credermi. Ma una fotografia della barca con a bordo mio nonno, io, quattro verdesche e uno smeriglio, ridette dignità alla mia immagine”.

Composta di quei piccoli bastimenti a stive forate, si costituisce una flottiglia per battere le rotte Ponza-Galite e ritorno; a vela o a remi. Sono armate per la pesca alle aragoste. I nuovi pionieri hanno già superato le prove impegnative dei mari e dei venti di quelle rotte e si sono cimentati con le insidie di quegli approdi aperti.
Eppure, in una sola notte di burrasca, i pescatori invano si battono per riportare a casa barche e prede: dodici bastimenti si inabissano e, con questi, rischiano di svanire desideri e progetti dei novelli Fenici.

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Antonio D’Arco

Ma se aveva resistito quell’ Antonio D’Arco, il primo ponzese che si era impossessato di buona parte della Galite all’inizio della seconda metà dell’ 800, che aveva difeso il suo nuovo territorio dai francesi e dagli stesi tunisini con le unghie e con i denti (in verità si era portato dietro una vera e propria santabarbara), potevano ricominciare anche loro.

[La Galite. L’isola clonata. (1) – Continua]