Ambiente e Natura

Le estati a casa di nonna Pasqualina (1)

di Mimma Califano

 

I racconti di Rosanna e di Franco mi hanno riportato alla memoria le estati di molti anni fa, quando bambina seguivo le mille attività in cui erano impegnati mia madre, zii, zie e cugini – ero la piccola di casa – nella grande casa di nonna Pasqualina a mar’e coppa.
La nonna ormai avanti negli anni, ma sempre vigile: era il riferimento di tutti e contribuiva con mille piccoli consigli allo svolgersi delle faccende di casa.

Nonna Pasqualina

Che ci sarà stato da consigliare, penserà qualcuno!
Se le “faccende di casa” fossero come le intendiamo oggi, poco o nulla, ma a Ponza, a quell’epoca ed in quel periodo dell’anno era tutt’altra storia.

Oltre alle normali incombenze di una grande casa contadina – ‘normali’ per l’epoca si intende – in estate avveniva la lavorazione di molti prodotti agricoli in modo da consentirne l’utilizzo anche nei mesi successivi, quando non sarebbero stati disponibili. Nel casolare, nei cortili ed anche sul tetto dalle primi luci dell’alba ad oltre il tramonto era tutto un via-vai di cose e persone.

E poiché la buona riuscita di tanto lavoro era essenzialmente legata all’esperienza – non esistevano e non potevano esistere ricette o regole prefissate – come ha scritto Rosanna per le ‘mostarde’ (leggi qui), le ricette erano a uocchio – ecco che la grande esperienza di nonna Pasqualina risultava determinante per la buona qualità del prodotto finito.

Erano tre gli ambienti in cui si concentrava il lavoro: ’ngopp’all’asteche, sott’ u suppuòrt’ e dint a’ cucina (suppuòrt’ – letteralmente ‘sottoportico’: nel nostro linguaggio familiare sta per corridoio coperto tra due parti della casa)


’Ngopp’all’asteche
Ci stava l’asteche ’i vascie e l’asteche ’i copp’. Oggi chill’ ’i vascie si chiama più propriamente terrazzo.   

È in quest’ultimo che si concentrava la maggior parte dei prodotti destinati ad essere essiccati: i fichi, l’uva per le passe, il concentrato di pomodoro (’a cunserv’), ’i mustàrd’ e spesso anche uno o più grandi buccaccie con le amarene.

Preparazione conserva
Dalla seconda metà di luglio si iniziava con la conserva, che andava a far compagnia ai ‘boccacci’ di amarene con lo zucchero che già da metà/fine giugno vi avevano fatto la loro comparsa in posizione strategica: più sole possibile ma al sicuro da involontari urti.

Le amarene (stessa quantità di amarene snocciolate e di zucchero) devono restare al sole per non meno di un mese e mezzo. Con questa modalità lo zucchero si fonde con il succo delle amarene e si  trasforma  in uno sciroppo a bassa gradazione alcolica (se necessario ad una perfetta conservazione a fine periodo si aggiunge un mezzo bicchiere di alcool puro).

Amarene

 

Preparazione delle amarene

Succo ed amarene sciroppate sono una delizia per preparare o guarnire dolci e gelato artigianale – ma quest’ultima è un’opportunità moderna -: preferibilmente gelato allo yogurt. All’epoca invece l’uso più frequente era offrirli al naturale ad eventuali ospiti in visita, in alternativa all’uva sotto anice o in alcool, quest’ultime due preparazioni, erano però settembrine.

Ritornando alla conserva. Era abitudine dell’epoca non solo fare le bottiglie di pomodoro, ma anche la conserva. Il pomodoro una volta passato, salato e fatto bollire per un po’, veniva posto al sole in grandi piatti piani o se la quantità era maggiore, si utilizzava la mattera (erano ripiani di legno con le sponde rialzate, di dimensioni circa 1 m. x 0,70; ce n’erano di varie dimensioni: in quelle più grandi si impastava anche la farina per fare il pane).
A protezione dagli insetti ci si stendeva sopra un velo.

Mattera
Per facilitare la totale evaporazione della parte umida, la passata veniva girata più volte al giorno, finché non sarebbe diventata scura (color rosso mattone) e consistente. Quando era pronta, veniva travasata in contenitori di coccio e coperta da un leggero strato di olio.

Svuotato un contenitore, il giorno dopo era già pronta altra conserva da far asciugare, fino a che la quantità totale non era giudicata sufficiente agli usi di casa fino alla successiva produzione di pomodori. Questa conserva si utilizzava a cucchiaiate, in aggiunta o sostituzione del pomodoro, il suo gusto era molto marcato, piuttosto  asprigno.

Con agosto, ’ngopp’ all’asteche d’a nonna, arrivavano i fichi! (‘i ffiche).

Fichi

Perché il punto esclamativo? Perché erano tanti: alcuni anni quintali! E non era come adesso che vengono essiccati in enormi forni ventilati; allora tutto il lavoro, dall’albero a’ casciulella, era manuale.

I fichi per poter essere messi ad essiccare devono essere perfetti, maturi ma non sfatti e raccolti con tutto il picciolo. Quasi ogni giorno dalla campagna gli zii portavano uno o più canestri di fichi appena raccolti. Questi canestri venivano necessariamente e delicatamente portati a spalla, perché se caricati sull’asino gli eventuali sobbalzi avrebbero potuto rovinare il contenuto. A casa venivano selezionati, tra quelli da mangiare subito, qualche piatto da regalare o da vendere (in verità non molti, perché praticamente tutti all’epoca potevano disporre di grandi quantità di fichi), e quelli un po’ rovinati che andavano per l’alimentazione dei maiali ed a volte dei conigli.

Tutti gli altri finivano ’ngopp’all’asteche. Oggi come modalità di conservazione pensiamo subito alla marmellata, fino a mezzo secolo fa a Ponza questa trasformazione era riservata solo alle mele cotogne (che si faceva in settembre, spesso in coincidenza della vendemmia).

Per mettere i fichi a seccare, fino a che la quantità era modesta si utilizzava una base di canne oppure canestri larghi e bassi, ma quando la quantità aumentava, era diventato diffuso – in tutta la zona di Santa Maria e dei Conti – l’impiego delle reti per letti; esse si erano dimostrate buone allo scopo, poiché il prodotto era arieggiato anche da sotto.

I fichi venivano leggermente schiacciati nella parte centrale e posti al sole. Dopo un paio di giorni di sole venivano passati in acqua bollente per un paio di minuti e riportati al sole avendo cura di girarli più volte al giorno. Quasi sempre questa attività vedeva impegnati noi bambini; con le mani più piccole eravamo facilitati  e poi ci sentivamo gratificati dell’incarico ricevuto e dalla sua utilità.

Fichi secchi.1

Sfruttando tutte le ore di sole possibile i fichi vi sarebbero restati esposti ancora per almeno una quindicina di giorni.

Incombenza del pomeriggio, appena il sole, come si diceva “girava dietro casa”, era portare al coperto tutto ciò che era stato esposto al suo calore; l’operazione inversa si faceva il mattino successivo appena i primi raggi  raggiungevano ’a curteglia.

Questo andirivieni di ceste e contenitori vari era tipico di tutta l’estate: dalla metà di giugno e fino a quasi tutto settembre.

I tempi moderni stanno facendo dimenticare quanto fosse indispensabile l’aiuto del sole per conservare i prodotti della campagna. All’epoca però il sole non era “malato”, come invece si usa dire oggi, per esprimere i mutamenti climatici in atto che rendono più problematici i rapporti con il nostro principale astro.        

Man mano che una certa quantità di fichi raggiungeva il giusto grado di essicazione, ci si organizzava per la parte finale della lavorazione.
Prima si passavano per qualche attimo in un pentolone d’acqua portato ad ebollizione ngopp’ ’a furnacell’a llegna; poi, dopo una rapida asciugatura nei canovacci puliti, andavano nel forno già caldo – anche questo era a legna – e vi restavano finché lentamente il forno non si raffreddava del tutto, spesso quindi fino al giorno dopo. Solo a quel punto il lavoro  era terminato ed i fichi finivano dind’a casciulella d’a nonna.
Così trattati si sarebbero mantenuti in perfette condizioni per molti mesi …e che profumo emanavano quando ’a casciulella veniva aperta per prenderne un po’!  

 In alcune annate la nonna aveva anche due casciulelle di fichi secchi.

Fichi secchi.2

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[Le estati a casa di nonna Pasqualina. (1) – Continua]

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