Il reportage di Rumiz “Il guardiano del faro” (leggi qui), mi sta riportando, giorno dopo giorno, ai tempi vissuti al faro della Guardia.
Ci sono ambienti, scene, personaggi, storie, passaggi che ricordano tanto il nostro meraviglioso faro.
Come il riferimento alle diomedee i misteriosi uccelli che nelle notti buie senza luna laceravano la quiete del faro con i loro lamenti strazianti. I nostri padri li chiamavano “i parlanti” per via del loro vociare così simile al pianto dei bambini.
Per tanto tempo i loro arrivi e le loro partenze sono state avvolte di mistero.
Ne ho accennato su questo sito quando ho raccontato dei ricordi legati ai momenti in cui, da ragazzino, mi rifugiavo nella torre della lanterna (leggi qui).
Sapevamo che arrivavano in assenza di luna e li aspettavamo, noi figli di fanalisti, seduti sul primo scalino che portava alla torre del faro. Era quello il posto più sicuro e anche ‘strategico’, perché ci consentiva di muoverci/fuggire verso ogni direzione. Salire la rampa di scale a chiocciole per raggiungere rapidamente la lanterna e guardare in ogni direzione attraverso le grandi vetrate; trovare immediato rifugio, se impauriti, nelle stanze degli appartamenti adiacenti.
I canti, i lamenti erano prima flebili data la lontananza, poi sempre più forti, penetranti, strazianti man mano gli uccelli si avvicinavano al faro. E dovevano essere in tanti se quel vociare diventava via via sempre più assordante.
Il portone serrato ci dava coraggio ma c’erano dei momenti in cui sentivamo quei lamenti talmente vicini da pensare che, separati dai corpi, potessero passare attraverso le fessure ed avvolgerci per portarci chissà dove. E bastava un fruscio o lo spostamento seppure flemmatico del gatto del faro per farci sobbalzare.
Fantasie di ragazzini che spesso ci accompagnavano a letto rendendo le notti insonni e piene di incubi.
Il mistero si infittiva quando a quei pianti di bambini si univano delle voci strane, cupe, pesanti, più diradate, come espresse per mettere ordine in quel frastuono e in quel vagare disordinato. Volendole associare a qualcosa di noto ricordavano tanto il grugnire dei maiali.
Il passare degli anni ci portò a prendere confidenza con quelle strane creature.
Attraverso le finestrelle collocate lungo la torre della lanterna imparammo a scoprirne le fattezze mentre i loro voli si incrociavano con i fasci luminosi del faro. Nella mente avevamo fino ad allora associato il pianto del bambino ad un uccello di piccole dimensioni e il grugnito del maiale ad uno enorme. Ci accorgemmo che erano invece più o meno tutti della stessa grandezza.
Abbiamo, in età adulta, appreso che era il maschio a “piangere come un bambino” e la femmina a rispondere “come un maiale”… per quel modo strano che ha a volte la natura di manifestarsi (guarda e ascolta qui).
Abbiamo cominciato ad amarli quando abbiamo saputo che, da uccelli pelagici qual sono, percorrono chilometri sorvolando il mare per procurarsi il cibo e sono capaci di farlo più volte al giorno quando devono accudire i propri pulcini.
Abbiamo appreso che volteggiavano intorno al faro durante il periodo riproduttivo e per nidificare negli anfratti sicuri del faraglione o tra gli spuntoni di roccia del vicino Monte Guardia. In assenza di luna per evitare gli attacchi dei predatori.
Alle isole Tremiti, dove nidificano tranquilli, questi uccelli prendono il nome di diomedee. Il loro lamento – ci hanno tramandato gli antichi – è il pianto degli spiriti dei guerrieri di Diomede per la scomparsa del loro condottiero che avvenne proprio presso quei lidi.
E Rumiz, splendidamente ci ricorda così ‘i parlanti’, nella X puntata del suo reportage dal Faro:
“E dov’erano le Diomedee, i compagni di Diomede che Zeus aveva trasformato in uccelli pe sorvegliare la tomba di lui? Le avevo sempre viste in spazi estremi: le Bocche di Bonifacio in Corsica, durante una traversata egea fra Kea e Mykonos e nella lontanissima isola di Gavdos, il punto più meridionale d’Europa. Avevo buone possibilità di trovarle anche lì, attorno ai faraglioni del mio faro. Soprattutto desideravo sentire il loro famoso lamento notturno. «Tutte le volte che le incontro — mi aveva detto lo skipper riminese Fabio Fiori — ne rimango rapito, come e forse di più di quanto non mi accada con i delfini».”
Approfondimento sulle berte (dal web – NdR)
Berta maggiore: Ordine Procellariformi; Famiglia Procellaridae; Genere Calonectris
Specie simbolo del Mar Mediterraneo, la Berta Maggiore può raggiungere i 50 cm di lunghezza, per 600 grammi di peso, con un’apertura alare di quasi un metro. Dall’aspetto simile a un piccolo albatros, la berta presenta un piumaggio bruno sul dorso, che sfuma verso il bianco sul collo e ventre. La testa si presenta grigio chiara.
Due le sottospecie principali: la Calonectris diomedea borealis , che nidifica nell’Atlantico – celebre la colonia presente alle Isole Azzorre – e la Calonectris diomedea diomedea, tipica del Mediterraneo, le cui colonie più importanti si trovano in Sardegna, alle Tremiti e nell’isola di Linosa, nell’arcipelago delle Pelagie che contiene la seconda popolazione più importante del Mediterraneo.
silverio lamonica1
15 Agosto 2014 at 10:28
Pare che il compianto Lucio Dalla si sia ispirato al canto delle diomedee nel comporre la sua celebre canzone 4.3.1943. Dalla, si sa, trascorreva gran parte delle sue vacanze proprio alle Tremiti.