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Buongiorno, come mi devo chiamare? (2)
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Lo strappo della partenza Il tempo della città meneghina, quel giorno, lo riempiva di una malinconia così forte che anche lui si sentiva tentato di imitare il cielo, ma le acque si sarebbero mischiate male. Nessuno sarebbe riuscito a capire quali fossero le loro provenienze. Non gli avrebbero fatto lo stesso effetto di quelle di casa sua, e poi era venuto apposta per voltar le spalle alla terra natia, perché lì, si scoprì, le acque non producevano vita. Scese e uscì, vedendo la grande struttura littoria di marmo in mezzo a delle macerie si poteva dire quasi ancora fumanti. Quella costruzione, nata poco tempo prima, aveva trascorso i suoi primi anni guardando le sofferenze di tante persone, essendo quello anche il posto dove tanti compaesani sarebbero partiti per non tornare mai più. La paura lo prese alla gola e si sentiva soffocare. Che cosa gli era saltato in mente di venire qua, si domandò. Le ferite del tempo di guerra in questa città erano ancora aperte di tal maniera che voleva scappare. Chi avrebbe accettato il suo aiuto in questa città grande e lontana a cui apparteneva meno degli intrusi della guerra? Non importava; c’erano i suoi cari laggiù, e la loro unica compagnia era la fame, e quando, quasi una settimana prima, decise di allontanarsi da loro con l’intenzione di fare svanire i loro problemi immediatamente, quella stessa fame gli era già stata addosso a singhiozzare e pregare da quattro giorni. Tornare avrebbe significato portar loro la morte, mentre essi contavano su di lui. Giunto che fu alla magnifica casa del Signore che assisté alla strage, il ricordo di quello che aveva lasciato si sciolse, e nella sua mente, Luigi vide la possibilità di crescere e di partecipare alla guarigione della ferita; la stessa che prima non gli faceva far altro che rammentare il suo dolore.
La vita continua Luigi era felice di leggere le loro lettere, ma temeva che troppo tempo dovesse passare prima di poterli vedere. Il lavoro era tanto, e le vacanze poche. Ricordava con dolce dolore la sua casetta con i suoi cari dentro, la sua terra, il suo mare, ma ogni volta che cominciava a pensare di tornarci, anche solo per un po’, ricordava la difficoltà e la fame che li tormentavano. In un giorno di lavoro come tanti altri, mentre Luigi s’indirizzava verso casa, incontrò una bella fanciulla di nome Barbara. Altri anni ancora passarono e la sua nuova famiglia fu resa ancora più felice dall’arrivo di un bambino. I genitori contenti diedero al loro figlio il nome Giuseppe per ricordare il padre di Luigi, deceduto nella guerra, anche se quest’usanza non fu tanto gradita dalla famiglia di Barbara. Ma alla fine, tutti concordarono di chiamarlo Peppe. Come succede in ogni famiglia, i rapporti tra Luigi e Barbara non erano sempre pacifici. Colto dalla nostalgia per la sua infanzia, Luigi si rammentò tutto quello che gli era successo prima di arrivare a Milano – i pomeriggi con i cari, le domeniche, gli animali, il duro lavoro di trebbiare i legumi, il mare. Poi, come dei carillon a cui fa solletico il vento, cominciarono a girare per la sua testa le canzoncine del suo paese che una volta gli cantava la sua anziana zia nel dialetto del loro paese sul mare. A Barbara le canzoni sembravano brutte, ma solo perché non le capiva. Non avrebbe mai potuto comprendere il vero significato di quelle semplici melodie che erano state per alcuni l’intera vita, piene di saggezze popolari e descrizioni di una vita semplice. Perciò volle che Gigino smettesse di cantare.
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