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La pastasciutta dei Fratelli Cervi
Oggi 25 luglio, in circa trenta località italiane si svolge una particolare manifestazione, la Pastasciutta dei Fratelli Cervi. Il centro promotore è l’Istituto Cervi – situato a Gattatico (Reggio Emilia) nella casa dei fratelli Cervi, trucidati dai fascisti il 28 novembre del 1943 – che vent’anni fa decise di ricordare il 25 luglio riproponendo la distribuzione di pastasciutta con cui la famiglia Cervi festeggiò la caduta di Mussolini e del fascismo. In realtà la festa avvenne il 26 perché i Cervi, andati presto a letto il 25, appresero la notizia il mattino successivo e subito decisero che bisognava dare un segnale di gioia nei modi più opportuni per quel particolare momento. Non si poteva festeggiare andando semplicemente in piazza poiché vigevano ancora le leggi fasciste che vietavano gli assembramenti di più di tre persone e, inoltre, c’erano ancora molte camicie nere armate in giro. Allora ad Aldo Cervi venne l’idea di dar da mangiare a tutti poiché la gente moriva di fame. Dopo tre anni di guerra, ormai la fame era diventata endemica, ma le famiglie dei contadini affittuari recuperando di nascosto parte del raccolto prima dell’arrivo della trebbiatrice, riuscivano ad avere un po’ di riserva che garantiva la sopravvivenza. Un altro fratello, Gelindo, che si dedica all’organizzazione, va alla latteria sociale Centro Caprara per recuperare i pentoloni in cui cucinare la pasta. Anche qui viene richiesto l’aiuto delle donne per grattugiare il parmigiano che insieme al burro sarebbe stato usato come condimento. La piazza si riempì e tutti ebbero la loro porzione, anche il maresciallo dei carabinieri che non riuscì a trovare ostacoli alla distribuzione di cibo e perfino un fascista in camicia nera, che si scusò dicendo di non avere altra camicia. Così, sono, ormai vent’anni, che l’Istituto organizza questa manifestazione in cui, pur essendoci anche la vendita di gnocchi fritti e salsiccia, la pastasciutta con burro e parmigiano viene distribuita gratuitamente. Come si può leggere dal depliant, le località in cui si manifesta contemporaneamente sono situate quasi tutte nel centro-nord, là dove la resistenza è stata vissuta e combattuta a lungo con grandi numeri di vittime, ma ci sono anche alcune centri meridionali, come Martina Franca (Taranto), S. Agata d’Esaro (Cosenza) e Tusa (Messina). La sera del 25 luglio sono tutte fra loro collegate con i social network e unite dalla trasmissione in streaming della manifestazione che si tiene nella casa dei Cervi, a Campegine, da anni diventato Istituto Alcide Cervi. . Il file .pdf della manifestazione (fronte/retro): Evento Cervi 2014
Alcide Cervi “I miei sette figli” 2010 ET Saggi (Einaudi)
Perché ho deciso di raccontare di Alcide Cervi
Tu, Alcide Cervi, scrivi un libro? Io non ci ho mai pensato, a questo. Né avrei potuto farlo. l’unico figlio. Ma che è uno, per te che ne hai perduti sette? E che differenza c’è con la bambina Clara Cecchini, di Valla, che le hanno ucciso padre e madre? Aveva solo quell’amore, e gliel’hanno tolto. Era di otto anni, allora, e vennero i tedeschi a casa sua e dissero ai famigliari che uscissero sotto il pergolato, si mettessero bene in fila, ché gli volevano fare la fotografia. La bambina si assestò i capelli, e volle dare la mano alla madre, in fila con gli altri. I tedeschi con una sventagliata di mitra li massacrarono tutti. E lei, Clara, restò solo ferita, ma non si mosse vicino al padre e alla madre morti, e restò lì come un cadaverino finché non vennero i partigiani. E che paragone c’è con la madre di La Bettola, che allorquando i tedeschi per odio bruciarono persone umane in piazza, le strapparono il figlioletto dalle braccia e lo buttarono nel fuoco? Questi sono dolori grandi, che offendono la vita. Io avevo sette figli, cresciuti con quarant’anni di fatiche, e mi preparavo a togliere il fastidio, ché già arrivavo alla settantina. Invece mi hanno mietuto una generazione di maschi, e la madre è andata via con loro dopo un anno, così io sono rimasto con quattro donne e undici nipoti piccoli, con un fondo di 56 biolche da lavorare. Hai tempo per soffrire, hai tempo come la madre di La Bettola, che si trova più libera di prima, più libera di pensare alla bambina sua? La vita non mi ha offeso, voglio dire, mi ha aiutato, perché dovevo campare ancora qualche anno, avere ancora forza di lavorare, per tirare su un’altra generazione, e prima non dovevo morire. Ecco perché finora non ho pensato al libro. L’importante era salvare la famiglia e la terra. E parlare, predicare, in memoria loro, la pace e l’antifascismo. Questo l’ho fatto, ma oggi posso fare qualcosa di più, perché ho smesso di lavorare e mi hanno messo in pensione, però io taglio lo stesso il fieno e accomodo le sedie. Non serve a niente, ma a me serve. La notte, quando il sonno se ne va leggo, e in una di queste veglie ho pensato: se raccontassi la storia dei figli miei?
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