Bosso Rita

Da Trieste a Ponza. (1)

mappa sloveniadi Rita Bosso

franc

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Un’altra tessera si aggiunge al mosaico sul confino che Ponza racconta va componendo sin dalla sua nascita.
Meta Štoka Debevec ci ha contattati per avere notizie sul periodo che il padre trascorse sull’isola. Ne è scaturita una chiacchierata che riportiamo in due puntate e che sicuramente proseguirà, dal momento che Meta ha appena avviato una ricerca negli archivi storici di Lubiana, su cui ci terrà informati.
Meta parla benissimo l’italiano, per fortuna, così possiamo limitarci a trascrivere la sua testimonianza.

Ponza Racconta: Chi era suo padre, Meta?
Meta Štoka: Mio padre era Franc Štoka, nato a Contovello, vicino a Trieste, l’undici agosto 1901 e morto a Ljubljana il 24 agosto 1969.
La sua famiglia di pescatori apparteneva alla minoranza slovena dei dintorni di Trieste e, come tutte le famiglie slovene, che in realtà formavano la maggioranza degli abitanti, ha subito una terribile persecuzione da parte dei fascisti. Era loro vietato, tra l’altro, di usare la lingua madre, lo sloveno. Il nome della mia famiglia, così come i nomi di tutti gli sloveni del litorale, era ufficialmente cambiato; la versione italiana del nome di mio padre è Francesco Stocca e così è stato registrato come confinato, a Ponza e a Ventotene.

PR: Quale attività svolgeva Franc?
MS: Già da giovane pescatore si interessò ai diritti della gente e alla lotta socialista e comunista. Secondo le testimonianze era un ragazzo molto intelligente e dotato, però la situazione economica familiare non gli permise di continuare gli studi; dopo aver finito i sei anni di scuola elementare cominciò a lavorare come pescatore nel golfo di Trieste. Con i compagni che condividevano le sue idee organizzò ed effettuò molte azioni contro i fascisti nel paese e nei dintorni e cercò di diffondere le idee socialiste ed antifasciste tra i giovani dei villaggi intorno. Se i dati di cui dispongo (non ufficiali) sono giusti, nel 1920 divenne membro del PCI. Dopo non molto le sue attività divennero note alla polizia e i fascisti cominciarono a perseguitarlo e a minacciarlo.
Il Partito Comunista gli suggerì allora di mettersi in salvo e di lasciare il paese; nel 1928 partì come clandestino da un porto della Germania e andò in Argentina; a Buenos Aires raggiunse la comunità di emigranti sloveni che, per ragioni simili alle sue, avevano lasciato i villaggi natii, nei dintorni di Trieste.
In Argentina mio padre continuò la  sua lotta antifascista e le attività contro l’ oppressione dei lavoratori, organizzando scioperi e varie manifestazioni e proteste, come pure eventi culturali nell’organizzazione slovena “Il palco popolare”. Queste attività presto divennero note alle autorità, che parecchie volte lo arrestarono. Dopo l’ultimo arresto nel 1934 fu espulso dall’Argentina e rimandato (incarcerato sulla nave) in Italia, dove fu consegnato alle autorità. Allora la commissione provinciale di pubblica sicurezza lo condannò a cinque anni di confino a Ponza.


La chiacchierata con Meta suscita qualche riflessione.
Sino all’estate del 1943 – quando il fascismo cade e, di conseguenza, Ponza cessa di essere colonia confinaria – l’isola ha ospitato, quasi senza soluzione di continuità, due popolazioni le cui esistenze si sono sviluppate in parallelo: quella dei residenti e quella dei coatti/confinati/internati/rifugiati/sorvegliati speciali, con i relativi sorveglianti. Ciascuna soggetta a limitazioni e a privazioni: le interazioni sono state poche, ostacolate da diffidenze e diversità culturali, oltre che da divieti espliciti.
Per molti di noi la conoscenza del fenomeno confinario è stata indiretta, mediata dai racconti dei genitori; su questa base si sono innestate le letture, le ricerche archivistiche, gli approfondimenti successivi.
“Eravamo confinati in casa nostra” – sintetizza un’anziana signora ponzese, riferendosi alle restrizioni di quegli anni; tuttavia racconta, ricerca qualche foto, rievoca con orgoglio le esercitazioni del sabato fascista.
Noi, figli dei “confinati autoctoni”, abbiamo potuto contare, per la ricostruzione di quegli anni, su una molteplicità e ricchezza di fonti, qualcuna afferrata al volo – il pensiero va a Ernesto Prudente, a Giannino Conte così prodighi di memorie, anche negli ultimi tempi della loro vita -, possiamo sfruttare un “museo del confino a cielo aperto”.
I figli dei “confinati non indigeni”, invece, sanno quasi nulla dell’esperienza vissuta dai genitori, sottoposta a una sorta di rimozione, come spesso accade alle violenze subite.
– “So che mio padre fu al confino a Ponza, ma non fu lui a parlarmene” – raccontò il figlio di Luigi Silvestro Camerini quando visitò la casa abitata dal duca.

Le parole di Meta confermano e spiegano il desiderio e la necessità di recuperare le tracce del percorso paterno.

 

 [Da Trieste a Ponza. (1) – Continua]


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