Ambiente e Natura

Horcynus Orca. Ritratti di donne (2). Le fere, la deissa

di Tea Ranno
Ciccina Circè

 

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Ma allora, come mai quel dindin di campanella che sfessa le fere e le incanta, le adesca e le ammutolisce? A che pro portarsele appresso, tenersele attorno alloppiate e incantesimate?
Se lo domanda il marinaio, e non capisce, non trova il nesso, non si rende conto: che femmina è questa che ha varato con la maestria di una pellesquadra figlia di pellesquadra, che è stata così perfetta nell’indovinare al buio il fiumarello giusto verso Sicilia e che ora, invece, si mette a sfantasiare le fere col dindin?
Che femmina è questa incantatora con le mammelle grandi e la figura che sembra dilagare e invece poi snellirsi in siluette di magra con le ossa puntute? Questa bocca che ride scianguettando e poi sorride con un bagliore agghiacciante di denti? Questa contrabbandiera senza carico che sta nel buio come figura contornata di pece e mai sarà vista in faccia, mai incontrata negli occhi? A chi appartiene questo gran corpo che assorbe l’uomo e come lo incorpora, lo cinge, gli cunta il cunto che parla di vita e di morte, e pure di amore: quello che non viene nominato e però è lì, ingarbugliato nel petto, imbrogliato nella lingua, intartarato nel pensiero? Chi è questa commediante, ingenua all’apparenza e sotto sotto diavola… o forse ingenua per davvero e però saputa delle cose della vita e perciò più esposta al patire, allo scorno di un tradimento che vide l’uomo suo maritato per sempre a quella gran puttanona dal naso mangiato che è la Morte?

Il marinaio cerca risposte e intanto ascolta quella femmina che ora si canta il tribolo da sola, che parla a sé come se quella sé fosse un’altra che le sta seduta davanti: e il fatto di parlarsi e di rispondersi, di confrontarsi e di confidarsi con parole che l’una capisce perché è la stessa che le pronuncia, ha in lui un effetto straniante.
E dunque ancora incalza, ancora domanda, vuole sapere la ragione di quel dindin sottilissimo che si fa filo per trascinare ciurme d’assassine cambiate in babbione.

Ma la femmina continua a divagare, a sbalordirlo con quel suo fare dispotico, dominatore dell’acqua e di quelli che nell’acqua – vivi e morti – ci stanno dentro. Perdipiù gli s’avvicina all’orecchio come per confidargli un segreto e lo cinge in un abbraccio che lo annoda e poi lo snoda per ancora riannodarlo, complici le lunghe trecce che va sbattendo intorno come fossero altre mani con cui tasta e tocca e afferra e si lascia afferrare. Un gioco a prendersi e a lasciarsi, dove chi prende non è sicuro di acchiappare per davvero e chi è preso gioca a confondere le carte.

Ma il marinaio non demorde: perché le fere, proprio le fere?

E quella alla fine sbotta: perché? perché? Perché in quel gran mare di morti ammazzati, così stracangiati dall’acqua salata che pure la loro madre, al vederli, si volterebbe dall’altra parte, quelle, le babbione, accalcandosi intorno alla barca le sbrogliano la navigazione appunto da quei morti che se ne stanno impantanati là: – “Mi servono a questo, sì” – confessa senza vergogna – “a pilotarmi in mezzo a st’anime vaganti…“.
Perché lei non è come le altre femmine sue paesane che hanno il cuore di roccia e scansano quei cadaveri a colpi di remo; lei ha un cuore che è un filo di capello, subito capace di spezzarsi alla vista di quei meschinelli in cerca d’approdo e di sepoltura. Così le fere le vengono in soccorso facendole da paravento e salvaguardia.
Soddisfatto il marinaio?
Sì. E ammirato, meravigliato per tanto ingegno.
Volesse sapere di più?
Certo che sì. E non ha bisogno di domandare, perché la trasbordatrice, continuando a chiacchierare con quell’altra lei con cui tanta consuetudine mostra di avere, straparla senza ritegno. Come se tutte quelle parole che va dicendo, ora che hanno un ascoltatore, avessero un senso più pregnante, più profondo.

2. Maredinotte.Barca

Andavano nella più fitta oscurità e solo allontanandosi dalla riva, colle prime alghe fosforescenti vaganti sulle acque alte, un chiarore fantomatico si diffuse qua e là…”

3. Marenotte.Smeriglio

“La barca, a volte, faceva la mossa di fermarsi, come se, sgarrando un poco fuori dal bastardello, franasse sopra le acque pantanose…”

 

Il viaggio continua. Per un’ora? Di più? A un tratto la notte è traversata da un raggio azzurrognolo, da un corrispondersi dei due fari – uno scilloto e uno cariddoto – che fa capire al giovanotto d’essere quasi arrivato a casa. Intravede la costa, riconosce le tre palme sotto le quali ha giocato quand’era un moccioso. Dovrebbe prepararsi all’approdo. E invece? Lo coglie un gran sonno che dura però – lui crede – appena un momento, giusto il tempo d’aprire e chiudere gli occhi. Un sonno durissimo se poi, già, si trova a terra senza sapere come abbia fatto la gran femmina a sbarcare.

Ma che m’avete cantato, la ninnaò?” – le domanda – “Ma che m’avete suonato anche a me il dindin?“.
E non si capacita. Poi, sommamente meravigliato e come ragionando tra sé: – “E sì, giusto mi disse un vecchio spiaggiatore. Deisse sono, deisse“.

Deisse, dunque, dee. Di quelle che possono tutto col capriccio e con la mano, con la coda del pensiero, con palpitare del petto e lo sconzarsi del cuore. Ma non solo del cuore, che cuore è carne, sì, ma c’è un’altra carne che aspetta sazio.
– “Non illudetevi di potervi disobbligare con la lusinga” – infatti replica lei.
Il disobbligo, giusto, perché la femminota non ha varato per gli affari suoi portandoselo dietro a picciotto, nossignore: ha varato espressamente per lui. E’ stata chiara, in questo, fin dall’inizio. E allora?
Soldi? Denari? La gran femmina non ne vuole…
Allora?

…Allora se lo chiama al buio, sotto le palme, dove si compie ciò che per allusioni e rimandi e resospiri, è palese sin dall’inizio. Insomma: “Fece tutto lei, ed egli si trovò a fare, tutto quello che lei voleva e faceva“.

Che fece lei? Sospirò, gli parlò, lo tirò a sé, l’assaggiò come e quanto volle, sproloquiò con la voce a filo di pianto, torno torno alla nostalgia, gli carezzò i capelli, belli ricciuti e folti, la barba, i baffi e ogni altro pelo del corpo, palpò ogni suo muscolo di giovanotto valente risparmiato dalla guerra, quindi gli afferrò l’affarecinese e lo trovò pieno di voglia citrigna, sentì la mano che le avvampava e giunse al punto in cui perdette la testa: allora domandò la pietà di essere cavalcata, a lungo e con delicatezza, e poi senza risparmio, e poi fino a straziarla: “Feritemi, feritemi, fatemi fare ahi, fatemi sentire ancora viva, in mezzo a questo mare di morti“.
E a lungo lui la cavalcò. E poi la speronò. Il tutto nella febbre di quella favolosa astinenza che ognuno dei due andava millantando per sé.

Poi il respiro di lei si fece tormentoso, tanto che lui si chiese se invece di un disobbligo le stesse infliggendo un dolore. Ma già lei gli metteva le mani contro il petto e lo allontanava da sé, muta, il capo girato dall’altra parte, come se stesse pensando ad altro…

 

E ad altro volge la storia, il marinaio è arrivato a casa ma la ruota del viaggio non smette di girare, la strada si sbroglia dai fumi della notte e dal nome di Marosa riparte la narrazione. Che è lunga, dicevamo, e varia, una millunanotte intrallezzera e mirabiliosa che pizzica la Storia e la trasforma in epopea, com’è giusto, talvolta, che sia.

 

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Nota – Questi scritti di Tea Ranno sono comparsi originariamente sulla rivista “O” di Omero, Scuola di Scrittura www.omero.it. Vengono ripresi su Ponza racconta per gentile concessione dell’Autrice.

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