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Risorgimento e antirisorgimento nel Lazio meridionale (1)

di Antonio Di Fazio
Allegoria del Risorgimento [1]

 

Il Prof. Antonio Di Fazio – latinista e studioso del Risorgimento meridionale, autore di numerosi saggi storici e direttore della rivista “Annali del Lazio meridionale” – ha di recente prodotto questo articolato saggio su ‘Risorgimento e antirisorgimento nel Lazio meridionale’ nel quale fa il punto della situazione storica, politica, sociale creatasi nella zona del Golfo al momento dell’assedio di Gaeta da parte dei Piemontesi nel 1860-61.
In questo quadro l’Autore sa con sagacia e puntualità inquadrare il ruolo che giocarono le nostre isole, specie Ponza. Lo pubblicheremo sul sito in più puntate.
La Redazione

  

1 – Risorgimento senza popolo.
Nel Lazio meridionale ex borbonico, come in ogni altra parte dell’ex Regno delle Due Sicilie, la comprensione corretta delle vicende risorgimentali non può prescindere dalla preventiva considerazione di quanto si muoveva sui due altri piani del quadro politico internazionale per un verso, e delle condizioni socio-economiche e di vita civile preesistenti per l’altro verso. Da tale esercizio critico sarà possibile tentare una iniziale comparazione delle situazioni e delle dinamiche politiche e socio-economiche attivate nel corso della difficile transizione.

In questo studio l’incidenza militare e diplomatica degli Stati europei, in particolare Francia ed Inghilterra, sarà individuata e valutata nel corso stesso della trattazione, mentre per l’altro polo della questione è necessario intanto individuare nei suoi confini storici e in quelli attuali il territorio di interesse, che già abbiamo indicato come ‘Lazio meridionale’. Questa porzione del territorio laziale coincidente con le parti meridionali delle odierne province di Latina e Frosinone, estese da Monte S. Biagio fino a Sora a nord e, a sud, fino al Garigliano, fiume che oggi segna invece il confine fra Lazio e Campania, costituivano all’epoca la parte nord-occidentale dell’ex Terra di Lavoro (con capoluogo in Caserta), ed era amministrativamente compresa fra i Distretti di Gaeta (Circondari di Gaeta, Fondi, Traetto e Ponza) e di Sora (Circondari di San Germano, Ceprano, Roccasecca, Venafro) .

Mappa_della_Provincia_di_Terra_di_Lavoro [2]

Gli studi condotti su quest’ampia fetta della provincia di Terra di Lavoro (vedi la mappa qui sopra) hanno concordemente posto in luce l’elevato grado di sviluppo economico raggiunto nella zona stessa con gli anni ’50 dell’Ottocento, sviluppo che ha riguardato di certo la produzione di derrate agricole, ma in special modo la produzione industriale pur se asfittico risultava però in tutto il Regno il commercio, ed ancora inadeguato il sistema creditizio. Tale vivacità di vita sociale e produttiva collocava l’intera provincia di Terra di Lavoro ai primissimi posti fra tutte le regioni del Regno. In questo quadro positivo emergevano in particolare proprio i territori della Ciociaria, di certo tra le più avanzate sul piano dell’industrializzazione e della modernizzazione, etc; e della stessa zona del Golfo di Gaeta, caratterizzata da vita civile evoluta, dalla presenza di vasto ceto impiegatizio sia civile che militare, da un ceto medio e imprenditoriale attivo, ed ancora da un’agricoltura differenziata e già caratterizzata da ampia presenza di piccole e medie aziende contadine.
Una conclusione degli studi più avanzati conduce al convincimento, da molti condiviso, che al 1860 il Regno napoletano «possedeva in sé tutti gli elementi della trasformazione» in senso capitalistico.

Terra di Lavoro. Antica mappa [3]

Questa impostazione che a noi oggi appare molto ‘naturale’ e logica, ha trovato ostacoli di diversa natura nello svolgimento della storiografia liberale di Ottocento e primo Novecento, interessata ad operare nel solco del sabaudismo o sul terreno delle idealità letterarie e della vita politica ed istituzionale. Quindi solo negli ultimi decenni si comincia ad assegnare la debita importanza a questi due  contesti, portando in luce il fervido intrecciarsi di azioni diplomatiche per un verso, e – dall’altro – tornando a studiare, dopo gli spunti lasciatici da Gramsci nei suoi ‘quaderni’ del carcere, la base sociale ed economica e gli interessi politici dei gruppi che operarono – al Nord come al Sud – all’Unificazione. Il merito grande del fondatore del PCd’I in questo campo è l’aver riletto l’intera storia nazionale alla luce del compito di evoluzione democratica della società, ponendo al centro dell’interesse finalmente la questione della terra e della partecipazione, o dei limiti della partecipazione, delle masse popolari e contadine al processo risorgimentale.

2 – Un quadro complesso e contraddittorio.
Ma andiamo rapidamente al tema qui affrontato. In corrispondenza alla complessità del quadro economico e alla vivacità delle sue dinamiche evolutive anche il  quadro politico, se si va un momento a liberarlo dalla polvere di un secolo e mezzo, appare alquanto complesso, articolato, finanche contraddittorio. Una sua ricostruzione per sommi capi è però necessaria alla comprensione e valutazione degli eventi locali.

Fino a ridosso dell’avventura garibaldina, anche nelle terre del Regno napoletano non si agitava né si ipotizzava un vero progetto unitario e ampiamente condiviso; nelle discussioni in organi ufficiali o nella libellistica non vi si trova traccia del disegno annessionistico piemontese, tanto meno di piani di invasione ed occupazione del Regno borbonico. Le delibere dei Decurionati di Terra di Lavoro emanate nei mesi dell’ avanzata garibaldina, pur se registrano ordinarie lamentele per i movimenti di truppa, cui concedere alloggi e vettovaglie, etc., quasi mai prendono posizione o mostrano sicura contezza degli eventi straordinari che si preparano.

Nella società civile si discute di costituzionalizzazione del governo, e talvolta anche di partecipazione alla guerra di indipendenza, di liberazione della penisola dal dominio austriaco. E in Sicilia continuavano a serpeggiare i tradizionali umori indipendentistici, spesso sostenuti dalla diplomazia inglese, che rendevano sempre precario il dominio di Napoli.

In effetti va ricordato che anche nelle varie soluzioni ‘nazionali’ propugnate dai Mazzini, Gioberti, Balbo, Cattaneo, etc. mai si ventilava una soluzione violenta e annessionistica, almeno nei confronti del Regno napoletano e dello Stato pontificio. La discussione e documentazione di tale assunto ci porterebbe lontano, ma potrà qui bastare richiamare quanto asserito dallo stesso Cavour nelle sue corrispondenze, o quanto era nell’animo di uno dei più noti e celebrati ‘liberatori’ del Sud, l’eroe e martire mazziniano Carlo Pisacane.
Nell’accingersi nel giugno del 1857 alla sfortunata spedizione in Calabria così scrisse a un corrispondente: «per me, non farei il menomo sacrificio per cangiare un Ministro, per ottenere una costituzione, nemmeno per cacciare gli Austriaci dalla Lombardia ed accrescere il regno sardo; per me dominio di casa Savoia o dominio di casa d’Austria è precisamente lo stesso. Credo eziandio che il reggimento costituzionale del Piemonte sia più dannoso all’Italia che la tirannide di Ferdinando II».
Si era già a ridosso della seconda guerra di indipendenza e dell’avventura garibaldina, ma nelle aspirazioni di Pisacane non c’era  la mera sostituzione di una dinastia ad un’altra, ma la costruzione del socialismo. Dell’azione condotta da Pisacane a Ponza e Sapri e della figura di Pisacane si impadronì immediatamente l’agiografia patriottarda modificando la realtà in lungo e largo (il grosso del manipolo, dopo la sosta a Ponza, come noto, fu costituito da delinquenti comuni che lì scontavano pesanti pene), cambiando soprattutto l’ispirazione rivoluzionaria e formativa che mosse Pisacane, trasformandola in ispirazione risorgimentale in senso stretto.

La soluzione unitaria estesa al sud non era nelle previsioni dello stesso Governo di Torino ancora nei primi mesi del 1860. E se ne ha conferma da una tribuna la più elevata che si possa desiderare, lo stesso re Vittorio Emanuele, che il 15 aprile 1860 (pochi giorni prima dell’inciucio garibaldino) in una lettera inviata, con l’avallo del Cavour, al cugino re Francesco II delle Due Sicilie, dopo aver richiamato le recenti sconfitte patite dall’ Austria a Magenta e Solferino, sconfitte che ridimensionarono non poco l’influenza austriaca nella penisola, esprimeva la necessità che gli Italiani fossero governati in nuove strutture; e spiegava: «Siamo così giunti ad un tempo in cui l’Italia può essere divisa in due Stati potenti, l’uno del Settentrione, l’altro del Mezzogiorno; i quali, adottando una stessa politica nazionale, sostengano la grande idea dei nostri tempi, l’Indipendenza Nazionale».

Nessuno lo voleva, dicevo, e finanche la maggioranza degli adepti della ‘Società nazionale italiana’, fondata a Torino nel 1856 per ispirazione del Cavour. E lo si percepì clamorosamente ancora nell’ottobre del ’60, quando il Crispi si oppose alla farsa dei plebisciti annessionistici, propugnando invece una serie di assemblee territoriali democraticamente elette che discutessero e deliberassero sulla questione. Fu per fugare questi contrasti che il dittatore Garibaldi (anch’egli esponente della ‘Società’, nella quale rappresentava l’ala più ‘rivoluzionaria’ ed aggressiva), il 15 ottobre, sei giorni prima della data stabilita per la celebrazione dei plebisciti, emanò il decreto dittatoriale n. 122 col quale decretava che «le Due Sicilie… fanno parte integrante dell’Italia una ed indivisibile, con suo Re costituzionale Vittorio Emanuele ed i suoi discendenti». La vergogna dei plebisciti-farsa del 21 ottobre, dunque, era anche un inutile rito, visto che già la suprema autorità territoriale aveva decretato l’annessione all’Italia “una ed indivisibile”.

Ma, si diceva in partenza, dove sono le differenze?
Ad esempio: gli Italiani sono oggi più uniti o più divisi? Dopo quasi un secolo, in una pagina del Gattopardo (edito nel 1958), Tomasi di Lampedusa poté mettere in bocca all’‘italiano’ colonnello Pallavicino, che in Aspromonte aveva emesso l’increscioso ordine di sparare a Garibaldi, queste rivelatrici proposizioni: «Mai siamo stati tanto divisi come da quando siamo riuniti. Torino non vuol cessare di essere la capitale, Milano trova la nostra amministrazione inferiore a quella austriaca, Firenze ha paura che le si portino via le opere d’arte, Napoli piange per le industrie che perde, e qui, qui in Sicilia sta covando qualche grosso, irrazionale guaio…».

E nel cinquantennio successivo le cose, con la nascita di una ‘questione settentrionale’, paiono anche peggiorate.
Lo stesso Lampedusa, che col suo romanzo ci consegna una rilettura ed un’interpretazione del Risorgimento senz’altro matura, soprattutto libera da necessità agiografiche o da difese di classe, ci consegna un altro giudizio spassionato quanto veritiero su un altro momento decisivo dell’avventura risorgimentale, e
per questo, direi, trascurato o bellamente mistificato dalla storiografia ufficiale, quello della celebrazione, il 21 ottobre del ’60, dei plebisciti di annessione al Piemonte. A Donnafugata qualcuno aveva votato ‘no’. Ma il suo ‘no’ era diventato, nella statistica proclamata dal sindaco, un ‘sì’ come tutti gli altri. «Don Fabrizio – commenta l’autore il lieve disagio provato dal Salina alla rivelazione dell’imbroglio – non poteva saperlo allora, ma una parte della neghittosità, dell’acquiescenza per la quale durante i decenni seguenti si doveva vituperare la gente del Mezzogiorno, ebbe la propria origine nello stupido annullamento della prima espressione di libertà che a questo popolo si era mai presentata».

 

Da: Annali del Lazio meridionale, a.XI, n.1 – Giugno 2011, pp. 59-78

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