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Passo dopo passo, fino alla verità del sogno. Ricordo di Gabriel Garcia Màrquez

di Gabriella Nardacci

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La notizia della morte di Gabriel Garcia Màrquez ha avuto grande risonanza nel mondo. Degna eco per uno scrittore, premio Nobel per la Letteratura nel 1982, la cui opera più nota, Cent’anni di solitudineCien años de soledad, 1967 – ha venduto 60 milioni di copie ed è stata tradotta in 37 lingue.

Cent'anni di solitudine.Bis [1]
Due delle edizioni italiane del libro: Feltrinelli 1a ediz. in Universale Economica Feltrinelli 1967; Mondadori E-Book, 2010

 

Immediata, nell’apprendere la notizia, è stata l’associazione ad alcuni dei suoi libri.
Saranno pochi i lettori che non hanno letto il suo capolavoro o che, incuriositi dal film, non abbiano poi acquistato un altro dei suoi libri più conosciuti: “L’amore ai tempi del colera”.

L'amore ai tempi del colera [2]

L’amore al tempo del coleraEl amor en los tiempos del cólera (1985)

 Locandina film L'amore ai tempi del colera [3]

L’amore ai tempi del colera (Love in the Time of Cholera) è un film del 2007 diretto da Mike Newell, adattamento cinematografico dal romanzo omonimo, che racconta l’infinita storia d’amore tra Florentino Ariza e Fermina Daza, che attende 51 anni, 9 mesi e 4 giorni per concretizzarsi, dal 1879 agli anni ’30 (con Xavier Bardem e Giovanna Mezzogiorno)

A proposito del libro di Màrquez Natalia Ginzburg, sulla Stampa scrisse: “…Da tempo non leggevo nulla che mi colpisse così profondamente… Leggere Cent’anni di solitutudine, è stato, per me, come udire uno squillo di tromba che mi svegliasse dal sonno…”.

Era un periodo di stagnazione, coincidente in letteratura con lo ‘sperimentalismo’, e da molte parti si diceva  che il ‘genere romanzo’ era morto.
Finalmente, con Gabo, si scopriva la fusione stilistica del reale con l’irreale, del quotidiano con l’eroico, in un teatro dove il tempo è circolare e dove i morti camminano tra i vivi.

Forte fu l’influenza di Faulkner e di Camus con La Peste, libro molto caro a Gabo e che tanto avrebbe voluto scrivere lui, come disse a un giornalista in un’intervista. Ma anche, tra i capolavori della letteratura sud-americana, di Pedro Pàramo di Juan Rulfo (1955).

Teatro di “Cent’anni di solitudine” è Macondo che somiglia al villaggio torrido della Colombia nel quale Màrquez è nato.
Le storie della famiglia Buendìa rassomigliano alle storie che gli raccontava sua nonna nella grande casa che l’ha visto bambino. Casa infestata da spiriti, scheletri, leggende di tesori nascosti nei muri (…è strano come certi racconti, da cui attinge un ricco immaginario infantile,  si somiglino… Pure i miei nonni mi raccontavano di fantasmi e di sepolti vivi e di tesori nascosti nei muri… Ogni mondo è paese! – NdA).

Per Màrquez gli studi universitari furono ingloriosi. Gli andò meglio col giornalismo. Cominciò a pubblicare qualche racconto su un giornale; poi divenne cronista per vari giornali colombiani e cominciò a viaggiare come corrispondente in Europa con sede a Roma, dove fece anche un corso di regia cinematografica.

Ma l’ultimo giornale per il quale lavorava chiuse le pubblicazioni e allora Gabo si stabilì a Parigi, dove scrisse soltanto, senza guadagnare mai. Indebitato e impossibilitato a pagare, ritornò in Colombia, dove si sposò e dove, nel 1959, riprese il lavoro giornalistico che avrebbe lasciato due anni dopo.

Da questo momento in poi farà solo lo scrittore perché forte è in lui la sensazione di essere predestinato a scrivere un capolavoro. Lavorerà su questo romanzo per anni e lo scriverà in capitoli staccati che poi unirà e che diventerà il romanzo tanto agognato.

La sua scrittura è densa di “figure” e d’immagini che trasportano il lettore nella realtà dei personaggi e dei luoghi che descrive. Si avverte la sua tendenza a essere regista e cronista delle cose che va narrando senza dimenticarne il coinvolgimento personale e facendo intuire al lettore il suo modo di sentire le emozioni e i sentimenti.

Come non capire la sua concezione dell’amore in “L’amore ai tempi del colera”, romanzo che insieme alle opere precedenti, gli aprì la strada al Nobel per la letteratura?

L’amore quando è vero, è costante in ogni stagione della vita…dall’esprimerlo attraverso l’irruenza quando si è giovani, fino al modo pudico e morbido nell’ultima stagione quando si accettano, in modo consapevole, sia i propri difetti e limiti sia quelli dell’amato/a permettendo all’amore di raggiungere un equilibrio ancora gratificante. Insomma il “per sempre”… pur nel vivere un numero imprecisato di altre storie brevi finalizzate solo all’appagamento di irrefrenabili istinti nell’attesa del grande incontro con una donna amata per una vita intera.

“Si può essere innamorati di diverse persone per volta e di tutte con lo stesso dolore, senza tradirne nessuna… il cuore ha più stanze di un casino…”.

Potrei commentare questo pensiero anche in modo negativo. Certamente è un pensiero sovversivo e trasgressivo e ci vuole coraggio a pensare all’amore in tal senso. Forse Gabo voleva giustificare un “uso improprio “ dell’amore dopo averne affermato un concetto sul quale anche lui stesso dubitava?

Florentino ama una donna che, tutto sommato, un po’ gli somiglia perché anche lei amerà suo marito, infedele e superficiale, fino alla morte di questo.

Un “triangolo amoroso” nel quale s’intersecano due storie “per sempre” ma con le contraddizioni dell’amore: la storia di lei con il marito e la storia di Florentino con lei.

Ma in molte sue opere, la donna sa tenergli testa ed è poliedrica e dispensatrice di vita. La sua è donna matriarca, donna misteriosa, donna frivola, donna bella. Insomma la donna che sempre lo ammalia, che lo guida. La donna, a volte madre a volte amante… e altre volte, forse, poco moglie. Una donna soggetto sempre, anche quando sembra essere aggettivo.

Certo è che il suo successo non è stato ben accettato da altri scrittori. Qualcuno ha odiato il suo “realismo magico” e per molto tempo si sono dovute evitare le parole “solitudine” e “ cent’anni” per non essere tacciati di essere degli imitatori.
Penso che l’invidia appartenga a molti scrittori come ad altri grandi artisti. Tutti aspirano a essere unici e questa cosa mi disturba assai. L’arte dovrebbe essere patrimonio di tutti e certamente lui possedeva l’arte del narrare.

A questo proposito faccio un grande e affettuoso applauso ad Alessandro Baricco che è uno dei miei “fari” e che non ha risparmiato mai parole e commenti positivi nei confronti di altri scrittori e delle loro opere, e l’ha fatto sempre con eleganza e fascino (sarebbe un sogno, per me, presentare Baricco e le sue opere… Ho detto “un sogno”…).

Gabriel Garcia Marquez è stato un amico che mi ha fatto compagnia in certe ore solitarie giovanili. A volte mi son persa dentro la sua terra e son dovuta tornare indietro alle pagine precedenti per riprendere alcuni personaggi che avevo dimenticato, leggendo quelle pagine dense di parole; ma alcuni concetti li ho condivisi e sono stati i primi pensieri importanti che ho interiorizzato da ragazza.

Come lui penso che le radici siano importanti al fine di capire che non siamo soli e in balìa del mondo. Josè Arcadio Buendìa, in “Cent’anni di solitudine” diceva: “ …non si è di nessuna parte finchè non si ha un morto sotto terra…”.

Quelle farfalle gialle, sono certa, hanno sollevato la sua anima in alto…

Le farfalle di Macondo [4]

Ai funerali di Gabo, citazione da “Cent’anni di solitudine”: le farfalle che circondavano Mauricio Babilonia (Foto da La Repubblica)

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Da YouTube (2010) Baricco legge Màrquez; un commento a “L’amore ai tempi del colera”

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