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A 70 anni dalle Fosse Ardeatine

di Rosanna Conte
L'ingresso attuale alle Fosse Ardeatine [1]

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Oggi ricorre il 70° anniversario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, una data e un evento che dovrebbero rimanere nella mente e nell’animo di ogni cittadino che creda ancora nei valori della pace, della libertà, della democrazia e che ritenga doveroso tributare il giusto onore a chi ha dato la vita per essi.

Noi ponzesi non siamo per nulla estranei alla vicenda e riandare con la mente a quel 24 marzo del 1944 dovrebbe costituire un atto naturale della nostra memoria collettiva.

Se partiamo dalla rilettura di quanto scritto da Gino Usai tre anni fa su questo sito – 5 articoli: digita Fosse Ardeatine nel riquadro CERCA NEL SITO -, possiamo entrare con emozione nel racconto delle vicende e, passando attraverso i riferimenti storici generali e quelli riguardanti in maniera specifica i ponzesi coinvolti, ci rendiamo conto che Ponza non era distante dal luogo della strage.

Via Tasso [2]

Via Tasso 145 – Museo Storico della Liberazione –  Roma

La mattina in cui Mario Magri, marito di Rita Parisi, Silvio Campanile, marito di Maria Bosso, e Francesco Savelli, l’ingegnere della miniera alle Forna, ex amministratore delegato della SAMIP, furono strappati  con altri 333 detenuti dalle dolorose celle di via Tasso e portati nelle cave di pozzolana lungo la via Ardeatina per esservi trucidati, Maria Bosso era andata alla prigione per portare il ricambio dei vestiti mentre il maestro Totonno Scotti e Furio Conte, diventati clandestini, stavano sotto copertura nel negozio di Silvio Campanile in via dei Serpenti e in costante pericolo di essere arrestati.

L’occupazione nazista di Roma incideva fortemente sulla pelle e nelle vite dei romani e di coloro che nella capitale si trovavano in seguito alle disavventure belliche precedenti e conseguenti l’armistizio dell’8 settembre del 1943.

L’ordine pubblico era gestito direttamente dalla Gestapo di Herbert Kappler che, oltre ad aver avviato ai campi di sterminio circa mille ebrei del ghetto di Roma, aveva anche scompaginato le diverse organizzazioni della resistenza romana. I gruppi militari del “Fronte Militare clandestino”,  quelli civili  di “Giustizia e Libertà”,  del Partito Socialista, i sindacalisti socialisti  e i comunisti  Trotskisti di “Bandiera Rossa” avevano subito forti decimazioni per gli arresti  e le condanne che si erano succeduti nell’inverno ’43-’44.

In quell’inizio primavera del ’44  i Gruppi di Azione Patriottica (GAP) erano rimasti i soli in grado di tentare azioni contro gli occupanti che, man mano che la situazione bellica peggiorava per loro, assumevano comportamenti sempre più efferati. Essi sentivano il peso del compito di contribuire alla liberazione della città, mentre c’erano gli Alleati che da gennaio erano impegnati nella battaglia di Anzio, da una parte, e in quella di Montecassino, dall’altra.

Roma era percepita come una vera zona di guerra e lo scontro armato o l’attentato rientravano nella logica dell’avanzamento o della retrocessione del fronte. Era ovvio, vista la disparità dei mezzi in campo, che gli ultimi gruppi della resistenza romana dovessero agire con gli attentati.

Via Rasella [3]
L’attentato di via Rasella fu contro un manipolo tedesco bene armato, in pieno assetto di guerra, che era solito passare per quella strada tutti i giorni.

La reazione tedesca fu feroce: dieci italiani da fucilare per ogni tedesco morto nell’attentato. Kappler, capo della Gestapo, e il suo attendente Priebke, furono gli esecutori degli ordini superiori: dovevano trovare 280 persone fra i detenuti condannati a morte e quelli accusati di reati per cui era prevista la condanna a morte in meno di 24 ore e nella massima segretezza. La notizia della rappresaglia non doveva trapelare per evitare reazioni più ampie, con il coinvolgimento della popolazione.

Era un’impresa improba, e Kappler pensò di attingere anche al gruppo di ebrei rastrellati da avviare in Germania (ne prenderà una cinquantina), oltre che chiedere aiuto al questore Pietro Caruso, il primo ad essere arrivato sul posto dell’attentato.
Intanto, col passare delle ore, i tedeschi morti per l’attentato aumentarono e si arrivò a 32. L’elenco di 320 persone era ormai pronto, quando sopraggiunse la notizia della morte del trentatreesimo.
Kappler, fedele esecutore degli ordini – ricordiamo la “banalità del male di Hannah Arendt – si affrettò ad aggiungerne altri dieci presi fra gli ultimi arrestati per i quali non c’erano nemmeno ancora accuse chiare.
Come si sia giunti a 335 più un’altra persona il cui corpo è stato trovato in un corridoio laterale delle cave in posizione diversa da quella degli altri fucilati, non è chiaro.
Pare che, secondo la testimonianza di un maggiore delle SS, Priebke avesse rilevato la presenza di cinque persone in più per la confusione avvenuta durante l’ultimo rastrellamento e avesse avvertito Kappler, il quale ritenne che dovessere essere fucilate comunque perché avevano visto tutto.

Che l’azione non fosse una normale risposta bellica all’attentato, fu avvertita dagli stessi tedeschi: il Maggiore Dobbrick, al cui reparto appartenevano i tedeschi uccisi, rifiutò di farla eseguire ai suoi uomini perché il loro sentimento religioso non consentiva di uccidere tanti uomini in così breve tempo e il colonnello Wolfgang Hauser, capo di stato maggiore del generale von Mackensen – comandante dalla 14ma Armata responsabile della zona di guerra della testa di ponte di Anzio – si rifiutò di fornire un reparto per l’esecuzione.
Ma Kappler che, come abbiamo già detto, era un fedele esecutore degli ordini, non si tirò indietro e coinvolse tutti i 74 uomini alle sue dipendenze perché il lavoro da compiere era lungo e faticoso ed egli fu lì a sorvegliare che fosse eseguito.

Il tutto si concluse alle ore 20.00 del 24 marzo. Alle ore 22,55 l’Alto Comando tedesco emisse un comunicato in cui dopo aver parlato dell’imboscata in cui avevano perso la vita i tedeschi, annunciava la rappresaglia con l’ordine della fucilazione di dieci italiani per ogni tedesco morto e concludeva dicendo che l’ordine era stato eseguito.

Renato Guttuso. Fosse Ardeatine (1950) [4]

Renato Guttuso. Fosse Ardeatine – Dipinto del 195o

Nelle Fosse Ardeatine trovarono la morte 39 militari appartenenti alla resistenza militare, 52 aderenti al Partito d’Azione e a Giustizia e Libertà, 68 a Bandiera Rossa, 19 massoni, 75 ebrei; gli altri erano quasi tutti detenuti comuni ad esclusione di alcuni rastrellati o arrestati poco prima o durante la formazione dell’elenco.
Ogni anno, in questa data, la patria li ricorda e rende loro omaggio con la visita del Presidente della Repubblica e la lettura dei nomi di tutte le vittime identificate.

FOSSE ARDEATINE: NAPOLITANO, ONORE AI CADUTI NON FINIRA' [5]
Il Presidente Napolitano alle Fosse Ardeatine nel 2012

Quest’anno il comune di Roma ha organizzato una serie di eventi come la mostra al Museo della Liberazione Passaggio nella città prigioniera; la proiezione alle ore 15.00 del film documentario di Massimo Sani Roma 1944: l’eccidio alle Cave Ardeatine alla Casa della Memoria e della Storia dove verrà presentato anche il volume di A. Zevi Monumenti per difetto. Dalle Fosse Ardeatine alle pietre d’inciampo e la proiezione del documentario di L. Lo Bianco e A. Pozzi: Via Tasso da carcere a Museo al Nuovo Cinema Aquila, ore 18,30, e alla Casa del Cinema alle ore 20,30.

Venerdì scorso, l’VIII municipalità di Roma ha organizzato il “corteo della memoria” a cui hanno partecipato centinaia di persone:  davanti al sacrario delle Fosse Ardeatine sono stati liberati 335 palloncini.

Palloncini per le Fosse Ardeatine. 2014 [6]
E’ importante che ci siano momenti di ricordo collettivo sia perché mantengono vivo il ricordo di coloro che hanno sacrificato la loro vita per dare a noi un paese libero e democratico, sia perché saldano il senso di appartenenza di una comunità che ha condiviso un percorso di esperienze tragiche e dolorose.

Ma è anche doveroso chiedersi se oggi, i valori che improntano la nostra società siano assimilabili a quelli per cui si sono battuti i tanti Magri, Campanile e Savelli che hanno perso la loro vita non solo alle Fosse Ardeatine, ma nei tanti luoghi della Resistenza italiana, nelle carceri del regime fascista o nei campi di concentramento nazisti.

Non so se, recuperati miracolosamente alla vita, vedendo come abbiamo bistrattato, rifiutandone l’espressione più alta, e declassato a piacere personale quella libertà che essi ci hanno conquistato, sceglierebbero il ripiegamento nell’amarezza della delusione o una nuova riscossa alimentata dall’indignazione.

Vista la loro forza d’animo credo che propenderebbero per la seconda.