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Come sono fatti. (2)di Adriano Madonna . per la prima parte: leggi qui . Come respirano i pesci? Com’è fatto il loro apparato circolatorio? Hanno un cuore come il nostro? A che cosa servono le squame?… Continua il nostro viaggio nello straordinario mondo dei pesci. Vale la pena ricordare, prima di procedere oltre, che due grandi classi dei pesci, certamente le più note, sono quelle degli osteitti e dei condroitti. I primi sono caratterizzati da scheletro quasi totalmente osseo (degli osteitti esiste la sottoclasse dei teleostei), mentre i condroitti (gli squali e le razze) sono dotati di scheletro cartilagineo. Lo scheletro osseo degli osteitti è certamente molto più completo e articolato di quello cartilagineo: la sostanza costituente è formata da collagene e da diversi tipi di proteine, insieme con fosfato e carbonato di calcio. La cartilagine dello scheletro dei condroitti, invece, è costituita da una sostanza di complessa composizione chimica, detta condromucoide (da cui condroitti o condritti), e formata essenzialmente da mucopolisaccaridi, in cui sono immerse fibre numerose e sottili. Si aggiungono, poi, in alcune regioni dello scheletro che hanno necessità di essere più dure, cristalli di fosfato di calcio, che si dispongono sulla superficie della cartilagine per rendere il tutto più robusto con un discreto grado di calcificazione. Ad esempio, nella scatola cranica degli squali vi sono diverse zone di cartilagine calcificate. Un’osservazione importante è la seguente: il tessuto osseo è abbastanza resistente alle insidie del tempo, a differenza della cartilagine. E’ questo il motivo per cui delle specie di squali primordiali praticamente esistono tracce insignificanti, a differenza dei dinosauri che hanno abitato le terre emerse, di cui si trovano ancora reperti ossei. Tegumento e scaglie Nei pesci teleostei le scaglie sono lamelle embricate costituite da tessuto connettivo fibroso impregnato di matrice ossea, quindi sono dure ma elastiche. Nei condroitti, invece, come gli squali, le squame sono simili a denti, simili non solo nella forma ma anche nella struttura e infatti, proprio come i denti, le scaglie degli squali sono costituite da un nucleo centrale di polpa circondato da dentina. Scaglie siffatte sono definite placoidi. Nei pesci ossei, invece, le scaglie più comuni sono le cicloidi e le ctenoidi. Le scaglie cicloidi, come si evince dal nome, hanno una forma più o meno tondeggiante; le ctenoidi (in greco, “a forma di pettine”) presentano, invece, un lato più o meno dritto e dentellato. Alcuni pesci di acqua dolce, gli olostei, dei quali un noto rappresentante è il luccio, sono dotati di un terzo tipo di scaglie, dette ganoidi, a forma di rombo. Proprio come avviene osservando la sezione di un tronco d’albero, anche un’attenta disamina di una scaglia ci offre elementi importanti sulla storia del pesce a cui essa è appartenuta: infatti, sulla scaglia vediamo i cosidetti cerchi di accrescimento, che ci indicano l’età del pesce, ma anche qualcosa di più: dalla loro osservazione si riscontrano le influenze dei cambiamenti stagionali, poiché la formazione di questi cerchi dipende dalla deposizione di materiale scheletrico, più rapida d’estate e più lenta o addirittura assente durante l’inverno. Questo fenomeno si evidenzia in un’alternanza di cerchi opachi e trasparenti. Questi ultimi sono i cosiddetti “cerchi invernali”. Le scaglie, dunque, si accrescono con il pesce ed è importante sottolineare che i forti nuotatori hanno scaglie piccole: ad esempio, il tonno, la ricciola, il pesce serra e la leccia le hanno talmente piccole da sembrare inesistenti, mentre alcuni pesci più sedentari presentano scaglie decisamente più grosse (vi sono delle eccezioni) e un paio di esempi, scegliendo fra tanti, possono venirci dal tordo e dalla cernia. Il perché di queste differenze è facile intuirlo: le scaglie grosse costituiscono una buona corazza contro eventuali urti e abrasioni, quindi sono utili a pesci di tana che vivono in ambiente roccioso. I pesci pelagici, invece, che vivono nel blu e non temono duri impatti, “possono accontentarsi” di scaglie piccole e sottili. Infine, ci sono pesci che in luogo delle squame presentano un velo mucoso. Le sue funzioni principali sono due: la protezione dell’epidermide da agenti patogeni, che potrebbero passare attraverso il tegumento e penetrare nei tessuti corporei, e la difesa dalla disidratazione. Ci spieghiamo meglio: alcuni pesci, come le anguille e i blennidi (le bavose), spesso trascorrono periodi più o meno lunghi al di fuori dell’ambiente acquatico. In particolare, le anguille, durante i trasferimenti da un fosso all’altro, nelle piovose notti d’autunno, nell’incredibile viaggio verso il Mar del Sargassi per la riproduzione, e alcune specie di bavose, quando, durante le sei ore di bassa marea, a volte restano in una tana al di sopra del livello del mare e, pur permanendo in un ambiente fresco e umido, devono attendere il nuovo flusso di marea per tornare in acqua. Anche alcuni pesci stanziali di ambiente roccioso, come il grongo, la murena e la musdea, invece delle comuni squame presentano il corpo ricoperto da muco, che ammorbidisce l’attrito con il substrato. Infine, ci sono pesci il cui strato mucoso che copre il derma ha addirittura funzioni strategiche: avete visto chissà quante volte, d’estate, i sugarelli che si accompagnano alle meduse. Lo stretto contatto garantisce ai piccoli pesci una certa protezione dagli aggressori, infatti qualunque pesce non si avvicinerebbe mai troppo a una medusa, a causa dei suoi micidiali cnidociti. Qualunque pesce tranne il sugarello, che è immune dalla micidiale azione degli organi letali della medusa proprio perché è protetto dal muco che gli ricopre il corpo. La sua composizione chimica, infatti, è la stessa presente nel tessuti della medusa, che non avverte, così, nel sugarello una presenza estranea. Sono gli stessi cnidociti della medusa che sollecitano specifiche ghiandole del sugarello a secernere muco, infatti, se questo si allontanasse per troppo tempo dalla medusa, si arresterebbe la produzione della provvidenziale sostanza e un successivo riavvicinamento provocherebbe la morte del povero pesciuzzo, adesso vulnerabilissimo. La respirazione Le branchie sono una speciale struttura costituita da quattro archi detti “archi branchiali”, situati ai lati della cavità della faringe, quindi nel retrobocca del pesce. Ogni arco branchiale presenta coppie dei cosiddetti “filamenti branchiali”. Le estremità dei filamenti degli archi contigui sono collegate tra loro e formano una sorta di filtro attraverso cui passa il flusso d’acqua penetrato attraverso la bocca del pesce. Ogni filamento è costituito da una serie di lamelle molto sottili e vascolarizzate. Attraverso il sottilissimo tessuto ricoprente avvengono gli scambi gassosi. Praticamente scoperte, le branchie sarebbero strutture estremamente vulnerabili, in particolare da agenti patogeni, ma questo rischio viene scongiurato dalla produzione di una sostanza mucosa a opera di speciali cellule presenti nel tessuto stesso delle branchie. La funzione delle lamelle è quella di aumentare al massimo l’area della superficie dove avvengono gli scambi gassosi (che possiamo chiamare sommariamente superficie respirante) e si arriva a risultati davvero sorprendenti: si pensi che in un tonno, pesce migratore fortemente attivo, ci sono due metri quadrati di superficie di scambio per ogni chilogrammo di peso. Ciò significa che un tonno di trecento chili è dotato di branchie con ben seicento metri quadrati di superficie respirante, che è sempre in proporzione con il livello di attività della specie. Ciò significa che pesci molto attivi hanno grandi superfici atte agli scambi gassosi e specie meno attive superfici più limitate. E’ importante aggiungere che la superficie respirante può anche variare in risposta alla quantità di ossigeno presente nell’acqua. Grazie a un esperimento, si è osservato che alcuni pesci gatto prelevati da acque ricche di ossigeno e immersi in acque povere di ossigeno, hanno gradatamente raddoppiato la superficie branchiale deputata agli scambi gassosi. Questo è un ulteriore esempio della possibilità che hanno gli esseri viventi di adattarsi a nuove condizioni: la tendenza, dunque, alla sopravvivenza e alla evoluzione in funzione dei mutamenti dell’ambiente. Cuore e circolazione La presenza di polmoni nei vertebrati terrestri e, invece, la presenza di branchie nei pesci, è determinante per la struttura del cuore e dell’apparato circolatorio degli uni e degli altri: in ciò, infatti, i pesci differiscono in maniera macroscopica rispetto ai vertebrati delle terre emerse, specialmente per quanto riguarda il sistema di circolazione del sangue, ma vediamo, innanzitutto, com’è fatto il cuore di un pesce. Esso è costituito essenzialmente da quattro cavità e, schematicamente, funziona in questo modo: il seno venoso, che ha ricevuto sangue dalle vene, lo invia all’atrio, che, grazie alla muscolatura che lo attiva, riempie il ventricolo. Quest’ultimo si contrae e spinge il sangue a forte pressione nel bulbo arterioso. A questo punto, la circolazione attraverso il corpo del pesce si può riassumere schematicamente così: il sangue in uscita dal cuore giunge alle branchie, dove avvengono gli scambi gassosi, poi affluisce all’aorta dorsale e raggiunge tutti i distretti corporei. Grazie alle vene cardinali e alla vena epatica, dai tessuti il sangue ritorna al cuore. La differenza con altri vertebrati, dunque, è la seguente: l’apparato circolatorio dei pesci è a un solo circuito, mentre altri vertebrati hanno un doppio circuito, costituito da una circolazione polmonare che trasporta il sangue tra cuore e polmoni e una circolazione sistemica, che fa affluire il sangue ossigenato dal cuore ai tessuti corporei e lo riporta, poi, impoverito di ossigeno, da questi al cuore. Il sangue ritorna al cuore attraverso la vena epatica (la vena del fegato) e attraverso le due grandi vene cardinali. . [Come sono fatti. (2) – fine] . Dott. Adriano Madonna, Biologo Marino, Laboratorio di Endocrinologia Comparata, Università degli Studi di Napoli Federico II Devi essere collegato per poter inserire un commento. |
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